Storia della filosofia/Niccolò Machiavelli: differenze tra le versioni
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Delle ombre della sua povertà, ma anche delle sue luci, Machiavelli scrive al Vettori in quella che è la più famosa lettera della nostra letteratura:
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{{quote|Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che ''solum'' è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandargli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo ''de Principatibus''|Lettera a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513}}
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