Le religioni della Mesopotamia/La letteratura religiosa in Mesopotamia/La Teodicea babilonese: differenze tra le versioni

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«Io, Saggil-kinam-ubbib, il sacerdote incantatore, adoro il dio e il re»
 
Le strofe seguono un dialogo pacato tra il "Sofferente" e il suo "Amico", i quali conversano sulla natura del male nel mondo e sulla "giustizia degli dèi". Il Sofferente osserva come non ci sia la giustizia nel mondo, il potente opprime il più debole, il ricco il più povero e gli dèi si disinteressano di coloro che li onorano cercandone la giustizia. L'Amico lo invita a non essere blasfemo e gli ricorda che i disegni degli dèi sono imperscrutabili per gli uomini, in realtà il potente e il ricco che si comportano ingiustamente non restano mai tali, ma le disgrazie li inseguono. Viceversa coloro che sono giusti e onorano gli dèi vengono da questi accuditi anche se con poco e l'ingiustizia subita viene per loro eliminata.

A differenza dell'analogo testo biblico in lingua ebraica, il ''Libro di Giobbe'' (`Iyyov, איוב), risalente al VI secolo a.C., qui l'Amico non muove alcuna accusa al Sofferente, al Giobbe mesopotamico, il quale risponde sempre pacatamente.

Il dialogo non offre una soluzione definitiva, ma conclude comunque con la fiducia nella giustizia di Šamaš (il dio Sole, l'Utu sumerico, dio della giustizia divina), nonostante le amare esperienze della vita.
 
==Le strofe della ''Teodicea''==