Guida maimonidea/Maghreb e Terra Santa: differenze tra le versioni

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Tale atteggiamento nei confronti di colui che si sacrifica a morire è in netto contrasto con la posizione che appare nella ''Lettera sul martirio'' e viene rafforzata nella ''Mishneh Torah'', in cui Maimonide in pratica asserisce che una persona che si sottomette alla morte quando non è obbligato a farlo, commette un reato capitale. In opposizione agli halakhisti aschenaziti, Maimonide credeva che quando si trattava di morire per la santificazione del nome di Dio, non c'erano atti volontari di pietà. Come sostiene nella ''Lettera sul martirio'': "E i nostri saggi sentenziavano [in certi casi] 'Che lo si lasci trasgredire e [non] dia la vita'. [Tuttavia] quest'uomo [si reputa] di condizione più elevata dei saggi, e più puntiglioso sulla Legge. Usando la bocca e la propria lingua, egli si arrende alla morte e asserisce di aver santificatro il nome di Dio. Ma mediante tali azioni egli è un peccatore ed un ribelle, e si rende colpevole verso la vita" (''ibid.'', p. 30) Come può sentenziare da una parte, che non esiste obbligo di dar la vita nelle persecuzioni del Maghreb e, dall'altra, che colui che agisce rigorosamente e la dà, riceve grande ricompensa? Evidentemente, come [[w:Haym Soloveichick|Haym Soloveichick]] ha spiegato,<ref name="Solovei">Haym Soloveitchik, "Maimonides` ''Iggeret Ha-Shemad''-Law and Rhetoric", ''Rabbi Joseph H. Lookstein Memorial Volume'', Leo Landmann (cur.), Ktav Publishing House, 1980, pp. 281-319.</ref> Maimonide stesso riconosceva che la decisione indulgente da lui proposta nella ''Lettera sul martirio'' non era abbastanza ben fondata da rendere peccatore colui che non vi si accordava.
 
Anche se la distinzione tra parola e azione è possibile, di per sé non può supportare adeguatamente la decisione indulgente emessa da Maimonide. Tale decisione si appoggia sulla sua più ampia posizione nei confronti del valore della vita umana rispetto all'obbligo di santificare il nome di Dio, ed il suo atteggiamento verso la complessa situazione della comunità che aveva presentato la questione. Proibendo senza ambiguità il dare la vita quando non si è obbligati a farlo, Maimonide dimostra di considerare la conservazione della vita come valore halakhico centrale. Nella ''Mishneh Torah'' egli formula il dovere di preservare la vita anche a costo di dissacrare lo Shabbat non come limitazione ai dettami della ''Halakhah'' ma come valore di per se stesso, caratteristico dei fini complessivi della Torah: "Poiché le Scritture dichiarano: 'Chiunque le metterà in pratica, vivrà' (Levitico 18:5) cioè non morirà a causa di loro. Quindi voi capite che le ordinanze della Legge erano intese portare al mondo non vendetta ma misericodia, bontà e pace" (''Leggi in merito al Sabbath''). Dato questo ampio intendimento del proposito della Torah e del valore della vita, è facile comprendere l'uso della distinzione tra parola e azione come mezzo per restringere lo scopo dell'obbligo martiriologico. Inoltre, la determinazione halakhica scaturisce non solo da valori sistematici generali ma anche dalla natura della situazione specifica che la riguarda. Maimonide si ritrovò a confrontare un dilemma: da una parte, desiderava prestare assistenza ai convertiti forzati, e quindi sentenziò indulgentemente, sulla base della distinzione tra parola e azione; dall'altra, non poteva denigrare quegli ebrei maghrebini che avevano dato la vita piuttosto che dichiarare la propria fedeltà all'Islam. I santificatori del nome di Dio erano presumibilmente ammirati anche da coloro che avevano deciso di convertirsi ''esteriormente''.<ref name="Hartman">David Hartman, ''Crisis and Leadeship: The Epistles of Maimonide'', Jewish Publication Society, 1985.</ref>
 
Come risulta chiaro dal suo trattamento delle conversioni coatte nel Maghreb, Maimonide fu dell'avviso che un ''responsum'' di tale tipo non dovesse essere limitato esclusivamente a considerazioni formali. Il giudizio è un prodotto complesso, e l'interpretazione di fonti halakhiche autorevoli da parte del decisore devono essere integrate con le più ampie considerazioni dei valori e con la pertinenza delle particolari circostanze in cui l'interrogatore si trova. Le costrizioni circostanziali che lo studioso deve affrontare nel prendere una data decisione continuarono a formare parte delle attività di Maimonide come halakhista per tutta la vita.<ref name="Hartman"/>
 
In un ''responsum'' successivo, quando già viveva in Egitto, Maimonide prese in esame il caso di un uomo che aveva assunto una bella domestica cristiana che viveva nel suo stesso cortile. La domestica si era convertita all'Ebraismo, e la domanda posta riguardava l'uomo, se gli fosse permesso di risiedere con lei o se il tribunale fosse obbligato ad ordinare a costui di mandare via di casa la donna. Maimonide era ben consapevole che la ''Halakhah'' proibiva il matrimonio del padrone con una domestica liberta, dato il sospetto che tale padrone avesse avuto relazioni con la donna prima che diventasse liberta. Ciò nonostante, rispose come segue:
{{q|Abbiamo dato giudizio spesse volte su tale tipo di situazione, che egli potesse emanciparla e sposarla. E l'abbiamo fatto per facilitare il pentimento. Dichiarammo che fosse meglio che egli consumasse il sugo [proibito] piuttosto che il grasso stesso, basandoci sulla determinazione dei saggi che 'È tempo di agire per il Signore; hanno violato la Tua Torah' (Salmi 119, 126). Quindi lo aiutiamo a sposarla con delicatezza e benedizione, stabilendo per lui un tempo in cui egli debba sposarla o mandarla via, come fece Esdra.|''Teshuvot'', sez. 211}}
 
Maimonide riconosceva che qui un'insistenza senza compromessi ad osservare la lettera della ''Halakhah'' avrebbe solo aggravato il reato del padrone e complicato la situazione, poiché egli avrebbe continuato a vivere nel peccato con la domestica. Ci poteva essere un divario tra i dettami astratti della ''Halakhah'' e la loro applicazione pratica. Maimonide attinse dai principi stessi della ''Halakhah'' onde giustificare, in casi specifici, i suoi scostamenti dai principi astratti della legge. Secondo le fonti talmudiche, il dotto a volte deve deviare dalla ''Halakhah'' perché circostanze cruciali richiedono una violazione dei comandi della Torah per amor del cielo: "È tempo di agire per il Signore; hanno violato la Tua Torah."<ref>La reinterpretazione midrashica del versetto, inteso a giustificare l'azione in situazioni critiche per evitare mali peggiori, viene letto: "È tempo di agire per il Signore; viola la Torah." Cfr. Herbert Alan Davidson, ''Moses Maimonides the Man and His Works'', Oxford University Press, 2005, ''ss.vv.''</ref>
 
La ''Lettera sul martirio'' aveva quindi un proposito più ampio di quello inteso a rispondere ad una questione halakhica. Nel suo ruolo maggiore, come afferma David Hartman,<ref name="Hartman"/> fu un impegno per rivitalizzare lo spirito e l'autostima della gente. Sensibilità per tali necessità pervade tutta la lettera, dall'inizio alla fine - e questa è la ragione per cui copre molto di più di una serie di riferimenti a fonti specifiche necessarie a risolvere il problema. Il ''responsum'' prende in considerazione l'intollerabile minaccia esposta dal precedente rabbino nel trattare la faccenda e della rispettiva possibilità che la comunità potesse disgregarsi nel sopportare il peso del presunto peccato. La sensibilità al disagio della comunità e la necessità di sollevarne gli spiriti appaiono non solo nella forma retorica del ''responsum'', ma anche al centro della distinzione halakhica fatta da Maimonide. Tale interpretazione caleidoscopica del problema portò Maimonide ad una posizione non interamente in linea con la propria posizione di principio o con le fonti halakhiche scritte.<ref name="Hartman"/>
 
Alla conclusione della lettera, Maimonide esorta i membri delle comunità sotto il dominio degli Almohadi di lasciare le proprie case ed emigrare in aree dove potessero vivere una vita pienamente ebraica, in cui osservare apertamente la Torah ed i suoi comandamenti. I convertiti forzati se avevano peccato non era per aver superficialmente proclamato il credo mussulmano ma per aver continuato a vivere nello stesso posto dopo aver fatto tale proclamazione che aveva loro salvato la vita. La loro speranza messianica di qualche forza esterna che potesse migliorare le loro condizioni era semplicemente un'illusione; invece avevano il dovere di andarsene dalle proprie abitazioni e trasferirsi altrove. Una versione della ''Epistola sul martirio'' contiene il seguente passo: "Ciò che consiglio a me stesso, e ciò che desidero suggerire a tutti i miei amici e a coloro che mi consultano, è di lasciare quei luoghi ed andare dove possano praticare la religione e adempiere la Legge senza costrizioni o paure... Uno deve lasciare tutto ciò che possiede, viaggiare notte e giorno finché trovi un posto dove possa praticare la sua religione. Il mondo è sufficientemente vasto ed esteso" (''Epistola sul martirio'', pp. 31-32). Tra le altre cose, Maimonide consiglia al convertito forzato che si è salvato pronunciando la ''shahada'' di emigrare in Terra d'Israele: "Secondo me, uno può sfuggirli pronunciando quella parola, cioé, riconoscendo quell'uomo [Maometto] e poi andarsene a vivere in Terra d'Israele, senza rimanere neanche un attimo nel luogo di persecuzione." (''Iggerot'', p. 57).