Guida maimonidea/Maghreb e Terra Santa: differenze tra le versioni

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La condizione degli ebrei che si erano convertiti coercitivamente ma erano rimasti ebrei in segreto divenne una materia alquanto controversa, e Maimonide ne venne coinvolto mentre si trovava ancora nel Maghreb. Il problema verteva sulla questione se un ebreo potesse scegliere di rimanere in vita simulando un'apparenza mussulmana fintanto che il furore fosse passato. La faccenda si complicava se tale ebreo avesse scelto di morire piuttosto che accettare l'Islam, per il fatto che i suoi figli sopravvissuti sarebbero stati allevati come mussulmani. Un ''responsum'' di autore sconosciuto e che era molto diffuso nel Maghreb asseriva decisamente che l'Islam era idolatria e che uno doveva rinunciare alla vita piuttosto che dichiararne fede. Tale dichiarazione, denominata ''shahada'' in arabo, richiedeva che l'ebreo attestasse che non esisteva altro dio all'infuori di Allah e che Muhammad era il Suo profeta. Il suddetto ''responsum'' equiparava ciò all'accettazione dell'idolatria, secondo la regola talmudica di "essere uccisi piuttosto che trasgredire"; ed un tribunale ebraico poteva imporre la pena capitale a colui che avesse scelto di trasgredire per salvarsi la vita.<ref>Chiaramente, non c'era scampo! Situazione tipo "tra incudine e martello" o "dalla padella alla brace", tanto per usare qualche cliché.</ref> Inoltre, il verdetto sosteneva che qualsiasi comandamento della Torah ottemperato in segreto da uno che si è convertito non ha nessun valore, e poiché ha abbandonato la comunità di Israele, las sua preghiera è repellente: "Uno che pronuncia quella confessione è un pagano, anche se adempie l'intera legge pubblicamente e privatamente... Se uno dei convertiti forzati entra in una delle loro case di preghiera [cioé, una moschea], anche se non dice parola, e poi va a casa e offre le proprie preghiere, tali preghiere sono contate contro di lui come peccati aggiuntivi e trasgressioni." (''Lettera sul martirio'', p. 16).<ref name="Iggeret">Maimonide, ''Lettera sul martirio'', vers. ingl. in Abraham Halkin & David Hartman, ''Epistles of Maimonides: Crisis and Leadership'', Jewish Publication Society, 1985, pp. 15-45.</ref> Questo ''responsum'' respingeva fermamente tutti coloro che nel Maghreb si erano convertiti coercitivamente, estromettendoli dalla comunità di Israele. Negava loro qualsiasi prospettiva di collegamento continuativo con l'Ebraismo, anche parziale, e recideva totalmente le loro connessioni con Israele. Prima ancora di essere conosciuto quale autorità prominente ed definitiva, Maimonide rispose a tale sentenza nella sua ''Lettera sul martirio (Iggeret ha-shemad)''.<ref name="Iggeret"/>
 
La ''Lettera sul martirio'' di Maimonide offre un'affermazione importante sulla propria consapevolezza quale dotto giuridico e sul suo concetto di ''halakhah''. Dal suo punto di vista, il problema in questione era più di una questione legale; era anche — anzi primariamente — il destino di una comunità a rischio di essere tagliata fuori dal mondo ebraico a causa del pesante travaglio che gli veniva imposto. Tale sentenza negativa li forzava effettivamente a cambiare da mussulmani per coercizione (e superficialmente) a mussulmani per volontà:
{{q|Quindi temevo che la sentenza che fa allontanare la gente da Dio cadesse nelle mani di un individuo ignorante, e costui concludesse che non avrebbe ricevuto nessuna ricompensa pregando, quindi non avrebbe pregato. Ciò. avrebbe presunto, sarebbe vero anche degli altri comandamenti; se li osserva, non ne ricava ricompensa alcuna.|''Epistola sul martirio, cit.'', p. 22}}
 
Il suo timore per la condanna del saggio a coloro che si sottomettevano alla conversione forzata portò Maimonide a cominciare la propria interpretazione con l'intenzione di scalzare la reputazione del saggio agli occhi di quelli che proponevano la questione. Presentò il saggio come un vaso vuoto, persino non degno di risposta: "L'uomo del quale si chiede una valutazione ha offerto una risposta debole ed insensata, di contenuto e di forma scorretti. Ha fatto dichiarazioni distintamente nocive." (''Lettera sul martirio'', p. 15) Conclude ridicolizzando quel saggio e applicandogli il versetto dell'Ecclesiaste (10:13): "Il principio del suo parlare è sciocchezza,
la fine del suo discorso pazzia funesta." (''ibid.'', p. 17).
 
Come fase successiva, Maimonide cerca di attenuare il senso di rifiuto dei convertiti forzati, trasformando l'autore del ''responsum'' da accusatore ad accusato. Il suo attacco si basa sul fatto che le parole ammonitrici del saggio sono in realtà un'espressione calunniosa contro un gruppo amato da Dio. Ben più grandi uomini sono stati puniti per il peccato di aver calunniato Israele — tra cui Mosé, Elia ed Isaia:
{{q|Se tale è la punizione inflitta ai pilastri dell'universo — Mosé, Elia, Isaia, e gli angeli che ci assistono — perché hanno brevemente criticato la congregazione ebraica, ben si può immaginare il fato del più infimo tra gli indegni che sparla a vanvera contro le comunità ebraiche di saggi e dei loro discepoli, sacerdoti, e leviti, e li chiama peccatori, malvagi, pagani, squalificati a testimoniare, eretici che negano il Signore Iddio di Israele? Queste sono citazioni verbali della sua risposta; potete immaginarvi la sua punizione?... Quest'uomo non comprende che essi non sono ribelli per scelta. Dio non li abbandona né li disconosce, ''perché egli non ha disprezzato né sdegnato l`afflizione del misero'' [Salmi 22:25].|''Ibid.'', p.19}}
 
Maimonide continua e rinforza il senso di appartenenza dei convertiti forzati, citando una serie di fonti autorevoli per dimostrare che i saggi ebrei, inclusi quei saggi della ''Mishnah'' come R. Eliezer e R. Meir, avevano preso le apparenze di aver trasgredito la propria fede durante tempi di persecuzione ma avevano continuato in segreto ad osservare la Torah ed i comandamenti. I convertiti forzati del Maghreb quindi non dovevano essere reputati come persone che si erano separate dalla comunità ebraica. Al contrario: le loro difficili circostanze e la loro risolutezza di continuare ad osservare i comandamenti in segreto, li pone chiaramente nell'ambito della tradizione dei grandi talmudisti.<ref name="Halbertal1"/>
 
Alla conclusione della lettera, Maimonide esorta i membri delle comunità sotto il dominio degli Almohadi di lasciare le proprie case ed emigrare in aree dove potessero vivere una vita pienamente ebraica, in cui osservare apertamente la Torah ed i suoi comandamenti. I convertiti forzati se avevano peccato non era per aver superficialmente proclamato il credo mussulmano ma per aver continuato a vivere nello stesso posto dopo aver fatto tale proclamazione che aveva loro salvato la vita. La loro speranza messianica di qualche forza esterna che potesse migliorare le loro condizioni era semplicemente un'illusione; invece avevano il dovere di andarsene dalle proprie abitazioni e trasferirsi altrove. Una versione della ''Epistola sul martirio'' contiene il seguente passo: "Ciò che consiglio a me stesso, e ciò che desidero suggerire a tutti i miei amici e a coloro che mi consultano, è di lasciare quei luoghi ed andare dove possano praticare la religione e adempiere la Legge senza costrizioni o paure... Uno deve lasciare tutto ciò che possiede, viaggiare notte e giorno finché trovi un posto dove possa praticare la sua religione. Il mondo è sufficientemente vasto ed esteso" (''Epistola sul martirio'', pp. 31-32). Tra le altre cose, Maimonide consiglia al convertito forzato che si è salvato pronunciando la ''shahada'' di emigrare in Terra d'Israele: "Secondo me, uno può sfuggirli pronunciando quella parola, cioé, riconoscendo quell'uomo [Maometto] e poi andarsene a vivere in Terra d'Israele, senza rimanere neanche un attimo nel luogo di persecuzione." (''Iggerot'', p. 57).
 
L'uso della prima persona da parte di Maimonide indica che il ''responsum'' è diretto non solo al destino dei convertiti forzati ma anche a quello di Maimonide stesso e della sua famiglia. Quindi, verso il 1166, Maimonide sfuggì le persecuzioni del Maghreb e si trasferì in Terra d'Israele. Si conosce il periodo che vi si stabilì grazie ad una lettera importante, scritta venti anni dopo nel 1185 a Rabbi Japhet, il ''dayyan'' di [[w:Acri (Israele)|Acri]], che ospitò membri della famiglia di Maimonide. Nella lettera, Maimonide con nostalgia ricorda la sua visita a Gerusalemme: "Perché io, ed egli [cioé David, il fratello di Maimonide], ed il mio onorato padre, e voi, tutti e quattro, incedemmo nella Dimora del Signore con grande sentimento... e camminammo per deserti e per foreste cercando Dio; non me ne dimenticherò." (''Iggerot'', p. 230). Tuttavia, poiché evidentemente non riuscirono a guadagnarsi da vivere in Terra d'Israele, Maimonide e famiglia emigrarono in Egitto.
 
==Note==
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