Storia della letteratura italiana/Cesare Beccaria: differenze tra le versioni

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Figura di spicco dell'Illuminismo italiano e della cultura milanese del Settecento, Cesare Beccaria fu membro dell'Accademia dei pugni, ed è ricordato principalmente per il trattato ''Dei delitti e delle pene'', in cui condanna la tortura e la pena di morte.
Fece parte del cenacolo dei fratelli [[w:Pietro Verri|Pietro]] ed [[w:Alessandro Verri]], collaborò alla rivista ''[[w:Il Caffè]]'' e contribuì a fondare l'[[w:Accademia dei Pugni]]. Fu stimolato in particolare da Alessandro Verri, protettore dei carcerati, ad interessarsi alla situazione della giustizia.
 
==La vita==
Subì gli influssi di [[w:John Locke|Locke]], [[w:Claude-Adrien Helvetius|Helvetius]], [[w:Étienne Bonnot de Condillac|Condillac]].
[[File:Cesare Beccaria 1738-1794.jpg|thumb|left|Ritratto di Cesare Beccaria]]
Cesare Beccaria nasce a Milano, figlio di Giovanni Saverio di Francesco e di Maria Visconti di Saliceto, il 15 marzo 1738. Studia a Parma, poi a Pavia dove si laurea nel 1758. Il padre sposò la Visconti in seconde nozze nel 1736, dopo essere rimasto vedovo nel 1730 di Cecilia Baldroni. Nel 1760, contro la volontà del padre, rinunciando ai suoi diritti di primogenitura, sposa l'allora sedicenne Teresa Blasco (originariamente De Blasio), nata a Rho nel 1744, dalla quale ebbe quattro figli: Giulia Beccaria (1762-1841), Maria Beccaria (1766 - 1788), nata con gravi problemi neurologici e morta giovane, Giovanni Annibale nato e morto nel 1767 e Margherita anch'essa nata e morta nel 1772. Cacciato di casa dal padre dopo il matrimonio, è ospitato da Pietro Verri, che per un periodo lo mantiene anche economicamente. Beccaria si vergognerà molto di questo periodo, e nonostante l'amicizia di Verri, faticherà a riconoscere i suoi debiti a quest'ultimo.<ref>[http://www.thefrontpage.it/2010/11/18/beccaria-i-suoi-delitti-e-le-pene-delle-figlie/ Onofrio Pirrotta, Beccaria, i suoi delitti e le pene delle figlie]</ref>
 
Teresa muore il 14 marzo 1774, a causa della sifilide o della tubercolosi.<ref name="Pirrotta">Pirrotta, ''art. cit''</ref> Beccaria, dopo appena 40 giorni di vedovanza, firma il contratto di matrimonio con Anna dei Conti Barnaba Barbò, che sposerà in seconde nozze il 4 giugno 1774, ad appena 82 giorni dalla morte della prima moglie, suscitando grande scalpore. Da Anna Barbò avrà un altro figlio, Giulio Beccaria.<ref name="Pirrotta" />
Dopo la pubblicazione di alcuni saggi di economia, pubblicò nel 1764 ''[[w:Dei delitti e delle pene]]'', breve scritto che ebbe enorme fortuna in tutta [[w:Europa]] ed in particolare in [[w:Francia]], dove incontrò l'apprezzamento entusiastico dei filosofi dell'[[Enciclopedia]] e di [[w:Voltaire]] e dei philosophes più prestigiosi che lo tradussero e lo considerarono come un vero e proprio capolavoro.
 
Il suo avvicinamento all'Illuminismo avviene dopo la lettura delle ''Lettere persiane'' di Montesquieu<ref>C.e M. Sambugar, D. Ermini, G. Salà - ''Percorsi modulari di lettura e di lavoro: Dall'Illuminismo al Realismo'', ed. La Nuova Italia</ref>. Inizia a far parte del cenacolo dei fratelli Pietro e Alessandro Verri, collabora alla rivista ''Il Caffè'' e nel 1761 contribuisce a creare l'Accademia dei Pugni, fondata secondo un suo concetto della educazione dei giovani mirante a rispettare i suoi concetti di legalità. Beccaria pensava infatti che l'uomo acculturato fosse meno incline a commettere delitti. Dalle discussioni con gli amici Verri gli viene l'impulso di scrivere un libro che spinga a una riforma in favore dell'umanità più sofferente<ref>C. e M. Sambugar, D. Ermini, G. Salà, ''Percorsi modulari di lettura e di lavoro: Dall'Illuminismo al Realismo'', Firenze, ed. La Nuova Italia</ref>. È stimolato in particolare da Alessandro Verri, protettore dei carcerati, a interessarsi alla situazione della giustizia<ref>Gianmarco Gasparri (a cura di), ''Viaggio a Parigi e Londra (1766-1767) - Carteggio di Pietro ed Alessandro Verri'', Milano, Adelphi, 1980</ref>.
Partendo dalla teoria contrattualistica, che sostanzialmente fonda la società su un contratto teso a salvaguardare i diritti degli individui, garantendo l'ordine, Beccaria definì il delitto come una violazione del contratto. La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un altro.
 
Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel 1764 dà alle stampe ''Dei delitti e delle pene'' breve scritto, inizialmente anonimo, contro la tortura e la pena di morte che ha enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo (Thomas Jefferson e i padri fondatori degli Stati Uniti, che la lessero direttamente in italiano, presero spunto per le nuove leggi americane) e in particolare in Francia, dove incontra l'apprezzamento entusiastico dei filosofi dell'Encyclopédie, di Voltaire (che ebbe anche una corrispondenza con Beccaria) e dei ''philosophes'' più prestigiosi, che lo traducoro (la versione francese è opera dell'abate filosofo André Morellet, con le note di Denis Diderot) e lo considerano un vero e proprio capolavoro.<ref>Vedi, ad esempio, Voltaire, ''Commento al libro "Dei delitti e delle pene"'', in ''Grande antologia filosofica'', vol. XIV, pp. 570-71</ref> L'opera è però messa all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa della distinzione tra peccato e reato.
Beccaria sosteneva quindi l'abolizione della [[pena di morte]], che non impedisce i crimini e non è efficace come deterrente; si occupò della prevenzione dei delitti, favorita a suo avviso dalla certezza piuttosto che dalla severità della pena (principio elaborato per la prima volta dall'inglese [[w:Robert Peel]]). Beccaria sosteneva che per un qualunque criminale, una vita da trascorrere in carcere con l'ergastolo privativo della libertà, è peggiore di una condanna a morte, mentre l'esecuzione non vale come monito e deterrente al crimine in quanto le persone tendono a dimenticare e rimuovere completamente un fatto traumatico e pieno di sangue, anche perché nella memoria collettiva l'esecuzione non è collegata ad un ricordo di colpevolezza (non essendo stato seguito il processo).
 
Per molti l'opera fu scritta in realtà da Pietro Verri, che riprese temi simili nelle ''Osservazioni sulla tortura'' e pubblicata anonima a Livorno per non incorrere nelle ire del governo austriaco. Lo stile analitico appare però diverso da quello del Verri, che è più vivace, e non vi sono prove certe a proposito: in realtà si può dire che il trattato germinò dal dibattito che animava la rivista ''Il Caffè'', di cui i fratelli Verri erano gli intellettuali di primo piano.
Anche [[w:Ugo Foscolo]] rileverà nelle "Ultime Lettere di Jacopo Ortis" che "''le pene crescono coi supplizi''".
 
[[File:DSC02897 - Milano - Piazza Beccaria - Monumento a Cesare Beccaria - Foto di Giovanni Dall'Orto - 29-1-2007.jpg|thumb|right|Giuseppe Grandi, monumento a Cesare Beccaria, 1871. Milano]]
Nel trattato si riprende il principio del valore rieducativo della pena, secondo un filone tipicamente italiano iniziato da [[w:Tommaso Campanella]], che del carcere aveva avuto esperienza personale: viene rilevato come la piccola delinquenza trovi in questa realtà vitto e alloggio assicurati e abbia un "interesse" a commettere crimini pur di entrarvi. Comunque è "l'estensione e non l'intensione della pena" che spinge a non commettere crimini: dunque occorrerebbero pene certe ed estese nel tempo. Invece, la pena di morte resta ammissibile soltanto nei casi in cui una fuga dal carcere del condannato potesse mettere in pericolo la sicurezza della società.
 
Beccaria compie poi controvoglia un viaggio a Parigi, solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. È accolto per breve tempo nel circolo del barone d'Holbach. La sua giustificata gelosia per la moglie lontana e il suo carattere ombroso e scostante, tuttavia, lo fanno tornare appena possibile a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro Verri a proseguire il viaggio verso l'Inghilterra.<ref name="Pirrotta" />
La figlia [[w:Giulia Beccaria|Giulia]] fu la madre di [[w:Alessandro Manzoni]].
 
Tornato a Milano per restarci, diventa professore di Scienze Camerali (economia politica) e comincia a progettare una grande opera sulla convivenza umana, mai completata. Entrato nell'amministrazione austriaca nel 1771, è nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia, carica che ricoprirà per oltre vent'anni, contribuendo alle riforme asburgiche sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Per questo riceve critiche dagli amici (tra cui Pietro Verri), che gli rimproverano di essere diventato un burocrate<ref>C. e M. Sambugar, D. Ermini, G. Salà, ''op, cit.''.</ref>.
Le opere sono state fonte d'ispirazione per saggi di sociologia e di filosofia contemporanea in tutto il mondo.
 
Complesso è il rapporto con la figlia Giulia, futura madre di [[../Alessandro Manzoni|Alessandro Manzoni]]: messa in collegio subito dopo la morte della madre e dimenticata per quasi sei anni, non ebbe relazioni con il padre, che non la considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una relazione extraconiugale delle numerose che la moglie aveva avuto. Beccaria non si sentiva adeguato al ruolo di padre, inoltre negò l'eredità materna alla figlia, avendo contratto dei debiti: ciò gli diede la fama di irriducibile avarizia.<ref name="Pirrotta" /> Giulia uscì dal collegio nel 1780, frequentando poi gli ambienti illuministi e libertini. Nel 1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni, più vecchio di vent'anni di lei: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare fosse in realtà il figlio di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro, nonché amante di Giulia. Prima della morte di Cesare, Giulia lasciò, nel 1792, il conte Manzoni e Milano, andando a vivere a Parigi con il conte Carlo Imbonati, rompendo definitivamente i rapporti col padre.<ref name="Pirrotta" />
Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra nella seguente frase: "''Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa''".
 
Beccaria muore a Milano il 28 novembre 1794, a causa di un ictus, all'età di 56 anni.
'''''Dei delitti e delle pene''''' è un saggio scritto dall'[[illuminismo|illuminista]] [[Milano|milanese]] [[Cesare Beccaria]] tra il [[1763]] ed il [[1764]].
 
== Il pensiero ==
*'''[[s:{{vedi source|Dei delitti e delle pene]]''' (1764) }}
[[Immagine:Dei deleti e delle pene 1764.jpg|thumb|Frontespizio della prima edizione dell'opera]]
Beccaria fu influenzato dalla lettura di Locke, Helvetius, Rousseau (di cui condivideva l'orientamento deista,<ref>[http://unionedeistiitaliani.wordpress.com/2013/03/10/famosi-deisti/ Famosi deisti]</ref><ref>L'affiliazione alla massoneria di Beccaria, affermata da alcuni, non ha trovato finora riscontro in alcun documento</ref> sebbene professò sempre il cattolicesimo per tutta la sua vita) e, come gran parte degli illuministi milanesi, dal sensismo di Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in particolare da Voltaire e Diderot.
 
Partendo dalla classica teoria contrattualistica del diritto, derivata in parte dalla formulazione di Rousseau che sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale teso a salvaguardare i diritti degli individui, garantendoe a garantire in questo modo l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in maniera laica come una violazione del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica.<ref>F.Venturi, ''Settecento riformatore'', Einaudi, Torino, 1969)</ref> La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un altro.
In questo breve trattato [[Cesare Beccaria|Beccaria]] si pone con spirito illuminista delle domande circa le pene allora in uso. Nel [[1766]] il libro viene incluso nell'[[Index Librorum Prohibitorum|indice dei libri proibiti]] a causa della sua distinzione tra [[reato]] e [[w:peccato]]. Il milanese affermava che il reato è un danno alla società, a differenza del peccato, che non essendolo, può essere giudicabile e condannabile solo da [[Dio]]. L'ambito in cui il diritto può intervenire legittimamente non attiene dunque alla coscienza morale del singolo. Per Beccaria, inoltre non è «l'intensione», ma «l'estensione» della pena ad esercitare un ruolo preventivo dei reati.
 
Il punto di vista illuministico di Beccaria si concentra in frasi come «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è necessario neutralizzare l'«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi nella società del suo tempo. La tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire, è parzialmente da lui accantonata, in quanto Beccaria vuole dimostrare pragmaticamente l'inutilità della tortura e della pena di morte, più che la loro ingiustizia. È infatti consapevole che i legislatori sono mossi più dall'utile pratico di una legge, che da principi assoluti, di ordine religioso o filosofico<ref>Sambugar, Salà, Letteratura modulare, vol. I</ref>. Beccaria afferma infatti che «se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Si inserisce quindi nel filone utilitaristico: considera l'utile come movente e metro di valutazione di ogni azione umana. L'ambito della sua dottrina è quello general-preventivo, nel quale si suppone che l'uomo sia condizionabile in base alla promessa di un premio o di un castigo e, nel contempo, si ritiene che sussista fra ogni cittadino e le istituzioni una conflittualità più o meno latente.
L'inglese [[w:Robert Peel]] affermò che la certezza della pena è un valore altrettanto fondamentale, e prevalente sulla gravità della punizione.
 
La natura umana si svolge in una dimensione edonistico-pulsionistica, ovvero sia i singoli, sia la moltitudine, agiscono seguendo i loro sensi. L'uomo però è una macchina intelligente capace di razionalizzare le pulsioni, in modo da consentire la vita in società; infatti certamente ogni uomo pretende di essere autonomo e insindacabile nelle sue decisioni, ma si rende conto della convenienza della vita sociale. Ma la conflittualità rimane e quindi bisogna impedire che il cittadino venga sedotto dall'idea di infrangere la legge al fine di perseguire il proprio utile a tutti i costi, pertanto il legislatore, da «abile architetto», deve predisporre sanzioni e premi in funzione preventiva; è necessario tenere sotto controllo i «fluidi», inibendo le pulsioni antisociali. Tuttavia Beccaria sostiene che la sanzione deve essere sì idonea a garantire la difesa sociale, ma al contempo mitigata e rispettosa della persona umana.
Il risultato dei suoi ragionamenti mostra l'inutilità delle pene che venivano usate rispetto allo scopo perseguito: una pena di grande intensità può essere presto dimenticabile ed il delinquente può essere in grado di godere dei frutti del suo misfatto. Al contrario, una pena duratura impedirebbe a chi compie un crimine di godere dei frutti del suo reato e nonostante non sia intensa viene più facilmente ricordata. Beccaria propone quindi la detenzione in carcere per i colpevoli.
 
La pena di morte, «una guerra della nazione contro un cittadino», è inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla volontà del singolo e dello Stato. Essa non svolge un'adeguata azione intimidatoria poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù, si tratta di una sofferenza definitiva contro una sofferenza reiterata. Anche se la pena assumesse un aspetto deterrente, essa apparirebbe uno strumento troppo dispendioso in quanto dovrebbe essere irrogata spesso per esercitare la dovuta impressione sugli uomini. Suggerisce invece di sostituirla con i lavori forzati, in modo che il reo, ridotto a «bestia di servigio», fornirà esempio duraturo ed incisivo dell'efficacia della legge, risarcendo la società dai danni provocati; e, così facendo, nel contempo si salvaguarda il valore della vita.
Tra le tesi che egli avanza contro la [[w:pena capitale]] vi è il fatto che lo [[Stato]], per punire un delitto, ne compierebbe uno a sua volta. Ed il diritto di questo Stato, che altro non è che la somma dei diritti dei cittadini, non può avere tale potere. Infatti nessuna persona - dice Beccaria - darebbe il permesso ad altri di ucciderla.
 
La tortura, «l'infame crociuolo della verità», viene confutata da Beccaria per vari motivi: viola la presunzione di innocenza, dato che un uomo non può considerarsi reo fino alla sentenza del giudice; consiste in un'afflizione e pertanto è inaccettabile; non è operativa in quanto induce a false confessioni; è da rifiutarsi anche per motivi di umanità, poiché l'innocente è posto in condizioni peggiori del colpevole; non porta all'emenda del soggetto, né lo purifica agli occhi della collettività. Ammette la tortura solo nel caso di testimone reticente, cioè a chi durante il processo si ostini a non rispondere alle domande; in questo caso la tortura trova una sua giustificazione.
La [[w:pena di morte]] diviene quindi uno ''spettacolo'' per alcuni, ed un motivo di ''compassione e sdegno'' per altri, che vedono l'inadeguatezza della pena.
 
Per ottenere un'approssimativa proporzionalità pena-delitto, bisogna tener conto del danno subito dalla collettività, del vantaggio che comporta la commissione di tale reato e della tendenza dei cittadini a commettere tale reato. Non dev'essere quindi una violenza gratuita, ma dev'essere invece essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi. La pena è oltretutto una ''extrema ratio'', infatti si dovrebbe evitare di ricorrere ad essa quando si hanno efficaci strumenti di controllo sociale. Per questo è importante attuare degli espedienti di “prevenzione indiretta”, come ad esempio: un sistema ordinato della magistratura, la diffusione dell'istruzione nella società, il diritto premiale, una riforma economico-sociale che migliori le condizioni di vita delle classi sociali disagiate.
La diffusione della religione tra gli strati più bassi della popolazione, faceva sì che i più miseri non temessero questa pena se avessero avuto la possibilità di risultare utili alla loro famiglia grazie al reato.
 
==Altri progetti==
Da "Della pena di morte": ''Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l'orrore di quell'ultima tragedia''.
{{interprogetto|w=Cesare Beccaria|s=Autore:Cesare Beccaria}}
 
Il fine delle pene non deve quindi essere afflittivo o vendicativo ma rieducativo, in perfetto spirito illuminista.
 
L'opera incontrò un notevole successo ed ebbe vasta eco in tutt'[[Europa]]. Fu apprezzata nella [[w:Milano]] illuminista, fu vista come il prodotto dell'attività innovatrice in [[Francia]], e messa subito in pratica dalla zarina [[w:Caterina II di Russia]].
 
Alcuni studiosi ritengono, con buone ragioni, che l'opera sia stata scritta da [[w:Pietro Verri]] e pubblicata anonima a Livorno (per paura di attirare sull'autore i fulmini del governo austriaco). Beccaria accettò di prestare (insieme a una piccola collaborazione) il suo nome al libro di Verri, il quale poi, di fronte al successo dell'opera, si pentì della scelta. Ma a quel punto lo stesso Beccaria si trovò in una situazione imbarazzante e decise di mantenere la "firma" all'opera. Se si legge con attenzione [[w:La storia della colonna infame]] di [[w:Alessandro Manzoni]] (nipote di Beccaria), si troveranno tra le righe, velate indicazioni sulle "cautele" di Verri.
 
Sull'onda del successo di questa proposta di riforma giudiziaria, la [[pena di morte]] fu abolita per la prima volta nel [[w:Granducato di Toscana]].
 
Di questo trattato [[w:Voltaire]] ne farà un commento.<ref>''Commentaire sur le traité des délits et des peines'', 1766</ref>
==Note==
<Referencesreferences/>
==Testi==
*'''[[s:Dei delitti e delle pene]]''' (1764)
*'''[[s:Elementi di economia pubblica]]''' (1804, pubblicata postuma)
 
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[[Categoria:Storia della letteratura italiana|Beccaria]]
 
 
 
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