Fisica e filosofia: differenze tra le versioni

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5 – Natura dell' oppressione: economica, sociale e politica.
6 – Attribuzione dei meriti operativi come autorità razionale.
 
Cap. 16:
Economia strutturale ed economia razionale.
§ 1: Definizione dell' economia e sua natura: come studio e come realtà
1 - Con Robbins, l' economia passò da studio delle cause del benessere materiale a studio di tutta l' azione finalistica dell' uomo. Se cioè prima si definiva l' economia come lo studio di uno specifico genere di attività umana, successivamente non vi fu più alcuna delimitazione classificatoria (1). Gli economisti hanno iniziato nel 2001 a parlare di “neuroeconomia” ossia di una scienza che combina le neuroscienze, l'economia e la psicologia per studiare i meccanismi attraverso cui operiamo delle scelte (2). Per economia si intende l' attività umana nel suo complesso, e quindi la vita stessa dell' essere umano nel suo manifestarsi ed evolversi. L' attività umana, inquadrandosi nelle strutture storicamente date, diventa un aspetto delle strutture stesse e quindi una manifestazione di queste ultime, prima che dell' essere umano in sé. L' economia , quindi, evolve con le strutture storicamente date, essendo l' aspetto basilare di queste. Per base economica od economia intenderemo i rapporti di produzione e di consumo o di distribuzione. L' economia è, quindi, lo studio dei rapporti economici propri delle strutture storiche (3). Bruno Rizzi evidenziava come per economia si debba intendere lo studio della base materiale delle strutture statuali.
2.1 - I “fisiocratici” consideravano solo l' aspetto fisico del sovrappiù, che si realizza solo in agricoltura, e non l' “aspetto economico” (secondo la concezione dell' economia degli economisti ufficiali), o valore del sovrappiù. Questo evidenzia come in agricoltura la produzione di valore non derivi direttamente dal lavoro quanto piuttosto dalla fertilità del suolo (4), ossia da elementi solo indirettamente connessi col lavoro. Tuttavia i “fisiocratici” individuavano nel “processo produttivo” la formazione del sovrappiù, fornendo al “marxismo” la base per la sua teoria ideologica ed obliando la corretta concezione precedente secondo cui il sovrappiù si origina nello scambio (5). Quesnay evidenziava la superiorità del rapporto di produzione capitalistico in agricoltura, ossia dell' affitto rispetto ai preesistenti rapporti di produzione propri del sistema borghese (6). I “fisiocratici” vedevano nell'artigianato la forma naturale (o consona a quello da noi definito sistema capitalista concorrenziale) dei rapporti di produzione nell' industria (7). Tale concezione deriva dalla confusione tra dimensione delle unità produttive con i rapporti di produzione. In realtà l' artigianato del XVIII secolo, specie nell' Europa Continentale d' Occidente, presentava ancora elementi propri del sistema borghese, come il corporativismo. Il “marxismo” identifica il “capitalismo” con le manifatture (8), sulla scorta dei suddetti “fisiocratici”. Tuttavia Napoleoni riconosceva come nelle manifatture del XVIII secolo non si avessero sempre rapporti di produzione di tipo capitalistico (9).
2.2 – L' “economia classica” definiva naturale, in quanto a-storico, quello che denominava "sistema capitalista". In tal modo essa ha posto le fondamenta dell'ideologia feudaleggiante del “marxismo”, il quale ha semplicemente rovesciato il concetto, considerando innaturale il “sistema capitalista” e naturale ogni altro sistema sociale. Gli “economisti classici” consideravano quella che noi abbiamo definito le fasi storiche mercantili come una semplice variante delle fasi feudali (da loro considerate come “stadio” unico ed irripetibile).3 - La distinzione “marxiana” tra valore d'uso e “valore di scambio” è puramente ideologica e fuorviante. Il “marxismo” distingue tra prezzo o valore d'uso e “valore di scambio” o valore teorico delle merci: determinato dal valore del lavoro necessario alla produzione di una determinata merce, il valore del lavoro essendo determinato dal valore dei beni necessari alla "riproduzione" del lavoro. L'assurdità di tale concetto è facilmente desumibile dal fatto che nel bene dovrebbe essere inglobato anche il lavoro degli addetti al commercio (da Marx ritenuti puri parassiti) e quindi per un' unica merce si avrebbero più “valori di scambio”, poiché ogni merce accede più volte al mercato, prima di essere consumata. Il che contrasta con l'idea stessa di valore, che deve essere costante. L' assurdità di tale concezione la rende indegna di essere citata in una “teoria economica”, se non fosse per il credito di cui ha goduto presso gli economisti e di cui forse ancora gode. In realtà il prezzo indica il valore d'uso del bene e non vi è altro valore possibile da attribuire al bene. Nelle fasi feudali si ha un valore d' uso, determinato però dal simbolo di potere che il bene rappresenta e non da un simbolo di benessere come è nelle fasi mercantili. Il costo della produzione è in stretta correlazione con il prezzo di vendita, il quale a sua volta è in stretta correlazione con il valore d'uso socialmente attribuito alla merce. L'attribuzione sociale del valore d'uso di una merce è connesso al meccanismo dell'inflazione: nei paesi ove maggiore è la contesa sul valore d'uso da attribuire ai beni, maggiore è il livello di inflazione. Il concetto di “valore di scambio” è stato creato dall' “economia politica classica” al fine di giustificare o sostenere la naturalità della fase statuale mercantile. Il “marxismo”, al contrario, utilizza tale concetto per calunniare le fasi mercantili ed il mercato, sostenendo che il mercato tenda a far produrre per il mercato stesso e non per il benessere dei cittadini. L'idea degli economisti "classici" e di Marx, secondo cui il valore del lavoro dipenda unicamente dal lavoro necessario per riprodurlo, presuppone l' assenza di ogni divisione sia orizzontale che verticale del lavoro, il che contrasta con la natura di ogni tipo di società, oltreché con la realtà delle strutture statuali. Marx presentò il lavoro come mezzo di accrescimento del valore (“di scambio”). Analogamente si potrebbe affermare che nelle fasi feudali il lavoro si identifichi con la formazione del potere e dunque l'oggetto del lavoro si identificherebbe col potere stesso. Si può affermare in modo forse meno fazioso che nelle fasi mercantili il lavoro sia attività esercitata al fine dell' accrescimento del benessere e nelle fasi feudali attività esercitata a scopi puramente oppressivi. Il “marxismo”, in realtà, scambia l' azione con il suo scopo. Marx, partendo dal presupposto del superamento dell' artigianato nel lavoro di fabbrica, affermava che il lavoro umano non sia più all' inizio del processo produttivo, ma in posizione intermedia. In realtà il lavoro umano è sempre alla base del processo produttivo, anche se la scienza e la tecnica non appartengono al lavoratore manuale, ma al maestro d' arte, al progettista, all'imprenditore, ecc. Per Marx la tecnica è l' essenza della scienza ed il “principio dell' attività umana”. Per Marx il lavoro è semplice mezzo al servizio delle macchine. Quest' ultimo assunto ha intenti chiaramente ideologici a fini feudali. Per la teoria “marxista” il lavoro umano differisce dal “lavoro meccanico” (svolto cioé dalle macchine) per la capacità umana di ideazione. In realtà solo l'uomo svolge attività lavorativa, sebbene le macchine possano produrre valori d' uso autonomamente. La capacità lavorativa viene retribuita in base al valore d'uso ad essa socialmente attribuito, sulla base della produttività sociale del lavoro stesso: questo avviene nelle fasi mercantili. Nelle fasi feudali il valore d'uso del lavoro non è determinato sulla base della produttività sociale del lavoro stesso, ma in rapporto alle momentanee convenienze delle gerarchie sociali precostituite dai detentori del potere.
4.1 - Lombardini affermava derivasse dalla “concezione edonistica” l'identificazione dell'utilità con la soddisfazione ottenibile dall' uso dei beni (10). In realtà la “teoria marginalistica” può ricondursi anche alla “teoria eudemonistica”, in quanto l' utilità ricavata dall' uso dei beni è riconducibile alla virtù della soddisfazione corretta dei bisogni umani (11). Gli economisti definiscono “stati del mondo alternativi” gli eventi alternativi che possono realizzarsi in un momento dato per una realtà data (12). Tale espressione indica il processo delle determinazioni dirette od indirette, interagenti nella conformazione di un dato evento. Nell' analisi di tali stati del “mondo” si utilizza la media ed il “valore modale” (13), ossia il valore più probabile o stato del mondo più verosimile: moda (14). Tali concezioni consentono alla cosiddetta “scienza economica” di analizzare le realtà strutturali non mercantili presenti nel “mondo” come se fossero appartenenti ad una fase mercantile.
4.2 - Secondo i modelli econometrici correnti, le spese belliche vengono conteggiate come consumo od investimento produttivo e come elemento di sviluppo (15). Secondo un modello econometrico equilibrato le spese belliche dovrebbero essere conteggiate come tesoreggiamento di beni o di denaro, ossia investimenti improduttivi. Il loro incremento genera infatti crescita, ma non definibile come sviluppo.
4.3 - L' “economicità” è caratteristica generale dell' economia propria delle fasi mercantili dell' universo strutturale statuale. Nelle fasi mercantili ogni attività economica tende ad acquistare valenza economica, in quanto rivesta carattere di “economicità”, ossia abbia come scopo la massima profittevolezza col minimo dispendio (16). L' economia non si esaurisce, tuttavia, nella ricerca dell'“economicità”. Il “formalismo economico” è lo studio dell' economicità delle strutture economiche insite nelle fasi mercantili: così a livello micro-economico vi è la teoria dell' azienda, a livello macro-economico vi è la teoria della formazione dei prezzi, dei redditi e del reddito nazionale. Godelier affermava che il problema sollevato dal “funzionalismo” consista nello stabilire fino a che punto nelle società non mercantili gli individui si propongano il fine di massimizzare i vantaggi economico-sociali, ossia si curino dell'“economicità” dell' azione economica. In realtà appare assai limitata la ricerca dell'”economicità” nelle fasi feudali delle società statuali, o meglio tale ricerca avviene con modalità e con strumenti assolutamente inadatti a massimizzare appunto l'”economicità” dell'agire economico. Del tutto inesistente è da considerare la ricerca dell'”economicità” nelle strutture pre-statuali.
5 - Mark Buchanan affermava: “L' economia si basa ancora sull' idea – sbagliata – che gli investitori siano individui totalmente razionali, sia che valutino un' azione o un mutuo. E il presupposto genera l' idea che i valori siano realistici e i mercati non si allontanino mai troppo dall' equilibrio. E invece banche e risparmiatori hanno dimostrato di essere emozionali e ogni 10 anni assistiamo a una crisi: è la dimostrazione che i mercati fluttuano moltissimo e, quindi, nei nuovi modelli interpretativi è necessario connettere fattori eterogenei, puntando alla stessa sofisticazione con cui indaghiamo eventi come la nascita dell' Universo. Ma la politica è disposta a seguirci?” (17). Egli, quindi, adombrava l' idea secondo cui l'irrazionalità faccia parte della natura fisica prima ancora che della natura umana.
6 - I bisogni di tipo immateriale o “spirituale” non sono extra-economici, contrariamente a quanto teorizzato da Marx (18), poiché anch' essi entrano nei rapporti materiali, essendo scambiati con criteri mercantili o feudali, in presenza dell' universo strutturale statuale. L' uomo non è, tuttavia, un “essere economico” in quanto i bisogni umani sono a monte dell' economia, la quale è solo il mezzo proprio della realtà strutturale di soddisfacimento dei bisogni.
7.1.1 - L' “economia classica” partendo dalla concezione dello scambio come fatto universale e naturale e quindi la società mercantile come società naturale, creò una teoria del valore basata sul lavoro considerato come base uguale per ogni essere umano. Tale concezione del lavoro può essere forse congruente con le società pre – statuali. Tale concezione è essenzialmente dovuta all' ignoranza della storia da parte dei suddetti “economisti”. Essi ritenevano lo scambio mercantile come un dato costante della società umana : questo è vero solo in parte; infatti vi può essere scambio senza mercato. Se si assume lo scambio come sinonimo di mercato si distorce completamente l' analisi della realtà. Tali “economisti” crearono così una teoria del valore come “valore di scambio”, che servì a fini ideologici al “marxismo” per attaccare la fase mercantile. Aristotele lasciò intendere di essere contrario al concetto (già allora in uso) di “valore di scambio”, in quanto coinvolgente il merito od onore del produttore e si dichiarò invece favorevole al valore d' uso, in quanto quest' ultimo si determina automaticamente ed è consono all' essenza del mercato (19). La teoria “marxiana” del valore come “valore di scambio” derivava direttamente dalla teoria dei “fisiocratici”, i quali misuravano il valore con il metro del lavoro agricolo. Marx, pur intuendo l' assurdità di tale teoria, la utilizzò a fini ideologici filo-feudali. Egli modificò la “teoria classica” del valore in modo da presentare la società mercantile come immorale ed auspicabile il suo superamento. Basò quindi la sua teoria del valore sul concetto di “valore di scambio”. L' “economia neoclassica” non negava la teoria del valore in base al “valore di scambio”: questo per non negare l' idea dell' insuperabilità della fase mercantile. Ne riteneva però insufficiente la teorizzazione ed introdusse quindi il concetto di utilità della merce come fattore di formazione del “valore di scambio”. In tal modo identificava però sostanzialmente il “valore di scambio” col valore d' uso. Gli economisti (marxisteggianti) parlano di lavori complessi come di lavori semplici “potenziati” o moltiplicati, di cui non viene specificato il fattore di moltiplicazione. Si fa intendere che il fattore di moltiplicazione dipenda dall' impegno intellettuale richiesto dal lavoro. In realtà ogni lavoro richiede un pressoché uguale impegno psichico, variando unicamente la profondità della razionalità richiesta. I predetti economisti conteggiano il numero dei lavoratori manuali cui far corrispondere un lavoratore intellettuale. Tutto ciò ha lo scopo di giustificare la divisione verticale del lavoro. Per l' economia dei sistemi propri della fase feudale ( come ad esempio i “Paesi del socialismo reale”), gli economisti parlano di valore d'uso come unico modo di definizione del valore, sebbene mantengano provvisoriamente in vita il concetto di “valore di scambio”, inteso come diverso costo dello studio (lavoro necessario alla produzione dei beni).
7.1.2 - Malthus, pur non enunciando compiutamente una teoria del valore, tuttavia adombò l' unicità del concetto di valore d' uso, affermando che “la quantità di lavoro comandata” da una merce sia espressione dell' “intensità della domanda” (20), ossia come il valore di una merce non sia che il suo valore d' uso.
7.1.3 - Smith riteneva assurdo analizzare la realtà capitalistica in termini di “valori di scambio” come lavoro contenuto (21), sebbene egli stesso avesse posto le basi di tale teoria, riferendola però ad una situazione “primitiva” (22), definita “mercantile semplice” (23). Questo dimostra come Smith intuisse come la determinazione del valore in base al lavoro contenuto direttamente ed indirettamente (24) sia valida solo in una realtà a-strutturale, ossia in assenza di divisione verticale del lavoro e con eguaglianza tra le capacità produttive. Inoltre Smith riconosceva come non siano “direttamente” salari, profitti e rendite a determinare i prezzi delle merci (25), intuendo come sia il mercato a stabilirli.
7.2.1 - Marx analizzava gli scambi mercantili come inutili scambi paritari: Merce – Denaro - Merce (MDM), mentre affermava che nella produzione non sarebbe così: in quanto si avrebbe un' aumento quantitativo di merce (o comunque una sua modificazione morfologica), si avrebbe cioè : MDM'. In realtà l' aumento di valore dei beni si realizza unicamente nel mercato. Nel mercato infatti, ossia nel rapporto di scambio, si realizza un' incremento del valore d' uso dovuto alla variazione della piazza o di un' altro elemento del rapporto di scambio stesso: come ad esempio una variazione connessa con il consumatore oppure con il produttore, mentre nella produzione si verifica semplicemente una modificazione della materia.
7.2.2 - Marx, pur sapendo che la fase mercantile abbia una natura diversa dalla fase feudale, sfruttò a fondo l'ingenuità della “teoria classica” per descrivere come inumana ed attaccare meglio la fase mercantile ed i sistemi sociali che vi fanno capo. Il “marxismo”, nella sua analisi dell'”economia”, totalmente stravolgente e mirante a proporre ed imporre un'impostura, lo si potrebbe definire "economia ideologica".
7.2.3 - Il pensiero economico “marxista”, pur considerando “pensiero economico borghese” tutto il pensiero economico non “marxista” (26) e pur considerandolo a-storico, tuttavia analizza unicamente la realtà delle società mercantili, pur affermando che tale realtà sarà inevitabilmente superata (27). Per “economia”, pertanto, anche per i “marxisti”, si intende la realtà delle fasi mercantili ed il loro studio.
7.2.4 - Aron affermava che la differenza tra Marx e gli economisti “classici” consista nel fatto che il primo considerava le teorie economiche valide unicamente per l'”economia capitalista”, mentre gli altri “classici” le considerano universalmente valide (28).
7.2.5 - Marx dimostrò di comprendere l' essenza della realtà strutturale statuale meglio degli altri “classici”, pur facendone un uso totalmente strumentale. Marx, affermando che in assenza di valore d' uso di un bene si abbia anche assenza di “valore di scambio” (29), dimostrò di riconoscere implicitamente l' artificiosità del concetto di “valore di scambio”, poiché in caso contrario avrebbe dovuto affermare che vi possa essere assenza di valore d' uso in presenza di “valore di scambio” di beni non utilizzati per il loro uso previsto.
7.2.6 - Schumpeter riconosceva come la “teoria dello sfruttamento”, derivante dalla teoria del valore di Marx, non sia che un gioco di parole (30) e la “teoria del plusvalore” sia falsa (31). Marx, infatti, di fronte alla contraddizione tra la sua “teoria del plusvalore”, che postulava un rapporto inverso tra grandezze di plusvalore e “capitale costante” o capitale vero e proprio e la realtà, la quale evidenzia come i profitti aumentino con il crescere del capitale costante o con lo sviluppo tecnologico, propose l' aggiustamento di considerare il tasso di profitto in rapporto alla somma del capitale costante e di quello variabile (32). Sebbene, con tale aggiustamento la teoria risponda, per certi versi alla realtà, in quanto il progresso tecnico-scientifico può di fatto coesistere anche con il declino della fase mercantile, caratterizzata da una riduzione tendenziale dei profitti (33), tuttavia la “teoria del valore” di Marx risulta sostanzialmente falsificata, come riconosceva Schumpeter e come è facile verificare, procedendo col metodo della falsificazione. Implicitamente lo stesso Marx riconosceva la falsità della sua propria teoria, parlando di distinzione tra “plusvalore” e saggio di profitto (34). Kurt Lewin dimostrò, inconsapevolmente, come la teoria del “valore di scambio” del lavoro o “lavoro necessario per produrre il lavoro” sia incongruente, poiché affermava che chi compra lavoro lo valuta come qualsiasi altra merce, e quindi in realtà ne valuta il valore d' uso (35) ossia il valore della capacità lavorativa. Gli stessi pensatori “marxisti”, del resto, hanno rifiutato da gran tempo la “teoria del valore – lavoro” di Marx (36). I commentatori del “marxismo” ne distinguono, spesso, il contenuto ideologico da quello “scientifico” (37).
§ 2: Economisti e concezione dell' evoluzione storica.
1.1.1 - Marx e gli economisti cosiddetti "classici" identificavano le fasi mercantili nel loro insieme con il sistema schiavistico, non riuscendo a percepire l'essenza effettiva del mercato e dei diversi rapporti di produzione e di consumo dei vari sistemi delle fasi mercantili. Negavano, quindi, ogni valore intrinseco delle merci, inteso come valore d' uso o di utilità atta a soddisfare i bisogni, così come ignoravano la capacità lavorativa differenziata ed estranea al suo costo di produzione.
1.1.2 - I cosiddetti economisti “classici” affermarono che le leggi della produzione siano naturali in quanto derivanti dalle “condizioni tecniche” (1), mentre ritenevano che la distribuzione dipendesse dalle istituzioni e dalle leggi. Essi, cioè, identificavano la distribuzione mercantile con quella feudale, creando così una mistificazione a cui si agganciarono gli ideologi filo-feudali.
1.1.3 - Smith affermava che la diversità tra gli uomini non fosse naturale ma causata dalla divisione del lavoro (dove egli equivocava tra l' aspetto verticale e quello orizzontale). Individuava, tuttavia, la possibilità di sviluppo economico offerto dalla divisione (orizzontale), del lavoro (2). Smith riconobbe come la divisione orizzontale del lavoro si basi sullo scambio (3), ritenendo quest' ultimo, in generale, naturale essendo un aspetto della comunicazione, ossia della natura umana “razionale” (4). Egli cioè si fermava ad un livello molto teorico, quasi filosofico, non analizzando la reale essenza strutturale della realtà dell' economia nell'evoluzione della realtà strutturale statuale.
1.2.1 - Gli economisti “fisiocratici”, analizzando la produzione e lo scambio, si accorsero di come questi coinvolgano la morale e la politica. Teorizzarono così un'“ordine naturale” della politica, confacente con la “società economica”, ossia con la fase statuale mercantile.
1.2.2 - Gli economisti definiscono “capitalismo commerciale” (5) quello che noi abbiamo definito sistema borghese e periodo di transizione al sistema capitalista concorrenziale.
1.2.3.1 - Adam Smith criticava le “teorie mercantilistiche”, le quali consideravano la moneta come la fonte ed essenza della ricchezza (6). Le “teorie mercantiliste” sono parzialmente valide per il periodo dell' accumulazione realizzato col commercio, mentre perdono di importanza allorché si sia costituito un sufficiente volume di capitale mobile o commerciale, che può essere conservato ed accresciuto solo col suo investimento in capitale fisso. Smith definiva “sistema mercantile” il “mercantilismo” protezionista, prestandosi ad interpretazioni e strumentalizzazioni ideologiche.
1.2.3.2 - Gli economisti affermano che in ogni sistema economico agiscano leggi “statiche” o “sincroniche” e leggi “dinamiche” o “diacroniche” (7). Essi cioè ritengono, con Marx, che l' evoluzione sia determinata da fattori interni ad ogni singolo “sistema”. Marx definiva le società mercantili, ed in particolare i sistemi capitalisti come società artificiali o deleterie, derivanti da “diversi stadi di produzione” (8). Questi precedenti “stadi” egli li riteneva invece naturali od “oggettivi”. E' evidente, tuttavia, come tra la concezione “progressista” “marxiana” e la concezione ciclica della storia statuale non vi sia sostanziale differenza, se non per il fatto che Marx riteneva regressive o negative le società mercantili rispetto a quelle precedenti e susseguenti, ritenute invece “progressiste” e dunque positive. Marx riconosceva come la concorrenza sia un carattere distintivo del “sistema capitalista”. Secondo Marx, superando la concorrenza si supererebbe il “sistema capitalista” stesso (9). Per tale ragione i “marxisti” sono divisi sul termine da attribuire alla società oligopolistica ed a quella burocratica, all' interno della fase mercantile contemporanea (10).
1.2.3.3 - Marx dimostrò di conoscere molto bene la natura dell' evoluzione della società statuale: infatti parlò di valori d'uso dei beni, riferiti sia alla fase feudale “medievale” sia al “socialismo” da lui auspicato, mentre per la fase mercantile, a lui contemporanea, parlò solo di “valori di scambio”.
1.2.3.4 - Marx, sulla scorta di Montesquieu, il quale ultimo parlò del regime dispotico che accompagnava i “sistemi asiatici”, definì il “modo di produzione asiatico” in modo tale da farlo apparire una società intermedia tra la fase feudale e la fase mercantile (11).
1.2.3.5 - Marx, pur considerando prioritaria la “struttura economica” (12) rispetto alla “sovrastruttura ideale”, tuttavia riteneva che “causa efficiente” dell' evoluzione sociale sia la “lotta di classe”, ossia un aspetto della “sovrastruttura” (13). In tal modo dimostrava di essere un falso materialista, per quanto ritenesse la “lotta di classe” direttamente connessa con la “struttura materiale” e che si muova in stretta connessione con quest' ultima, senza teorizzare una possibile forzatura su quest'ultima (14).
1.2.3.6 - Marx, considerato l' impulso ineguagliato al progresso tecnico-scientifico conferito dalla fase statuale mercantile “moderna”, e l' impulso che trae la stessa fase statuale mercantile, nel proprio sviluppo, dal progresso tecnico-scientifico, dedusse, in analogia parziale con le concezioni correnti nella sua epoca, che la forma mercantile corrisponda ad un determinato livello di progresso tecnico-scientifico.
1.2.3.7 - Gli stessi “marxisti” e Lenin, in particolare, riconoscevano, seppure cautamente, come la “socializzazione dei mezzi di produzione” possa sfociare in un “modo di produzione asiatico” generalizzato. Questo, peraltro, dimostra come i “marxisti” ed i “leninisti” avvertano seppure in modo criptico, poiché se ne vergognano, la reale essenza del “socialismo”.
1.2.4 - Comte rimproverava gli economisti di considerare l' “economia politica” estranea e scissa dalle scienze sociali. Gli economisti consideravano infatti l'economia un fatto naturale, avulso dalla storia e dalla società (15) o frutto delle scelte di “politica economica” dei governi. La convinzione comtiana e “positivistica” in genere, secondo cui la scienza non possa scoprire le cause dei fenomeni ma solo le loro modalità, deriva dalla necessità avvertita già dagli “umanisti” di ricercare prima le modalità dei fenomeni, trascurando la ricerca delle loro cause, dato lo stato raggiunto dalle conoscenze. Tale concezione, applicata alle cosiddette “scienze sociali” acquista il significato e lo scopo di coprire col mistero le cause dei fenomeni sociali, facendoli perciò ritenere naturali e comunque inaccessibili alla mente umana (16). In tal modo, le cosiddette “scienze sociali” divengono equivalenti ad una qualsiasi religione.
1.2.5 - Il fatto che si sia parlato, negli anni '90 del XX secolo e si parli ancora, di “nuova economia” (per la telematica e l' informatica) dimostra come la supposta “scienza economica” confonda tra natura dell' economia e beni prodotti (17). Gli economisti confondono spesso i settori produttivi od i tipi di produzione con i rapporti di produzione (vedasi il caso di definizione di "nuova economia" per la “rivoluzione informatica” dell' ultimo quarto del '900).
1.2.6 - Gli economisti “marxisti” trassero, dalla crisi della fase mercantile del XX secolo, argomenti per evidenziare la crisi della “scienza economica” “borghese” (18). L' evidente realtà della crisi della suddetta “scienza” indusse alla ricerca di ibridi tra la “teoria marginalista” e quella “classica”, in specie quella di Ricardo, onde analizzare o giustificare la realtà del sistema capitalista burocratico comatoso ed alcuni elementi di transizione ad una nuova fase feudale, che iniziavano a manifestarsi in Occidente negli anni '70, specie in Italia.
1.2.7 - I “classici”, e K. Marx, affermavano che la crisi della fase mercantile derivi da meccanismi interni alla medesima (19). Questo può apparire rispondente a realtà, ove si considerino le forzature che vengono spesso introdotte al funzionamento del mercato. Si tratta però di forzature, spesso conseguenza e non causa della crisi della fase mercantile e del mercato. Il mercato, pur partendo da situazioni di ineguaglianza profonda tra gli operatori del commercio, e tra le varie regioni in cui avviene lo scambio mercantile, tuttavia non necessita in assoluto di tali ineguaglianze per svilupparsi, poiché si basa sulla divisione orizzontale del lavoro, che tende a svilupparsi autonomamente e spontaneamente e di cui la divisione internazionale del lavoro è un aspetto, non necessitando in sé di elementi di divisione verticale del lavoro pur presenti, generalmente, nella divisione internazionale del lavoro. La crisi del mercato è da ascriversi all' arrestarsi della crescita dei bisogni, che inducendo crisi da consumi, induce la crisi del mercato. I “classici”, si rendevano vagamente conto di come i consumi improduttivi, causa della crisi della fase mercantile, non solo non incentivino lo sviluppo del sistema e del mercato, ma non avvertivano come, accrescendosi in modo abnorme, vadano a costituire scorte non spese, producendo crisi di domanda o da consumo (20).
1.2.8 - Gli economisti accademici, in genere, definiscono “economia chiusa” l'economia di quelle società che definiamo sistemi capitalisti burocratici, ove non venga lasciata piena libertà di sviluppo al commercio internazionale, attraverso protezionismi vari. Questo non implica totale chiusura del mercato interno rispetto al mercato mondiale. Gli economisti contemporanei tendono a produrre teorie economiche ad elevato grado di “formalizzazione”. I fenomeni economici vengono analizzati in funzione, essenzialmente, a causanti endogene all' “economia” stessa. L'elevata “formalizzazione” ha essenzialmente lo scopo di nascondere, sotto complessi calcoli “economici”, gli scarsi supporti scientifici, di natura economica, delle teorie stesse, facendo sopperire alla scientificità matematica la lacunosità, l'aperta contraddizione ed inconsistenza scientifica delle teorie economiche proposte.
2 - Radcliffe-Brown, inserendosi nella disputa tra economisti “formalisti” e “strutturalisti”, affermava che le istituzioni economiche debbano essere studiate “da due diversi angoli visuali” (21): formalmente nei vari meccanismi economici (statici) e strutturalmente, ponendo in rapporto le “istituzioni economiche con le strutture sociali in atto”, ossia con la dinamica dei vari sistemi sociali e fasi statuali. Il mercato, specie nei sistemi capitalisti concorrenziali, determina, almeno in parte, i valori relativi ed assoluti dei beni o merci. Intervengono, in tale determinazione, i tassi di interesse ed i saggi di profitto, questi ultimi derivanti dallo sviluppo delle tecniche produttive. Nelle fasi feudali, i feudatari tendono a fissare i tassi di accumulazione, insieme agli altri parametri economici, come i prezzi dei beni, ma non vi riescono poiché non controllano la produttività, la quale scende progressivamente a livelli minimi, indipendentemente dalla loro azione (22).
§ 3: Monete e loro valore
1.1.1 - Gli economisti parlano del “numerario” come bene di cui è determinata la quantità unitaria e come tale è utilizzato nella determinazione dei valori relativi. Essi affermano che sia utilizzato nelle società da noi definite appartenenti alle fasi feudali (1), dove però il “numerario” non ha valore monetario reale, ossia non è mezzo di scambio mercantile ma unicamente mezzo di scambio a valore imposto e limitato ad alcuni beni, mentre per altri è semplice parametro di calcolo (2). Essi riconoscono come nelle fasi feudali si abbia utilizzazione del “numerario” al solo fine di calcolo (3).
1.1.2 - Il prezzo assoluto è definito dagli economisti come valore relativo di un bene espresso in termini di numerario, dove il valore relativo è il rapporto di valore tra due unità di beni diversi (4) ed è definito anche prezzo relativo. Ricardo definiva “valore di scambio” il valore relativo delle merci (5). E' evidente come il valore relativo non possa che essere il valore d' uso relativo e dunque come egli definisca “valore di scambio” quello che è in realtà solo e soltanto il valore d' uso, sia esso relativo od assoluto.
1.2 - Le svalutazioni monetarie rendono il paese che le attua maggiormente competitivo, in quanto rende più facili le esportazioni, anche se può generare ulteriore inflazione, dato il maggior costo delle importazioni. Con una situazione di forte divario inflazionistico con i paesi concorrenti, la svalutazione è indispensabile alla sopravvivenza di quel paese sul mercato. Lombardini affermava erroneamente che la distruzione di moneta cartacea non costituisca perdita per la collettività ma anzi accresca proporzionalmente il suo potere d' acquisto (6). In realtà la distruzione di moneta provoca una deficienza di domanda di entità equivalente. Si ha cioè lo stesso effetto dell' immobilizzo di denaro provocato da fenomeni feudaleggianti o comunque dei fenomeni che determinano le crisi da consumo. La legge di Say, afferma che il livello dei prezzi è proporzionale all' ammontare della circolazione monetaria (7). La supposta mancata validità di detta teoria, affermata dagli economisti accademici, si verificherebbe quando, aumentando i prezzi, si riduce il potere d' acquisto, diminuendo la produzione. Gli economisti ufficiali non tengono conto del fenomeno della messa in mora di denaro o di merce. Col mutare della circolazione monetaria, muta la distribuzione del reddito, in quanto varia in modo non uniforme il livello delle scorte (8). La mutazione della circolazione monetaria non è mai univoca col variare dei prezzi (9).
2 - L' inflazione può essere sintomo di crisi ciclica da produzione, essendo espressione di tesoreggiamento dal lato degli investimenti od incremento di investimenti improduttivi (che può manifestarsi, ad esempio, sotto forma di aumenti ingiustificati dei salari). Può manifestarsi altresì attraverso crescite abnormi di scorte, investimenti speculativi od esportazioni di capitali. Generalmente l' eccesso di inflazione è prodotta da: rigidità del mercato del lavoro, scarsa produttività del lavoro, rigidità della dinamica salariale, svalutazione del capitale investito, conseguente all' occupazione apparente od improduttiva (10). In situazione di forzature sociali, un' alta riserva di mano d' opera può provocare un' eccessiva intensità occupazionale in alcuni settori, creando occupazione fittizia o non produttiva, che tende a generare alta inflazione. Questa alta inflazione determina poi bassa intensità di capitale, ossia scarso ammodernamento tecnico, determinato anche da disaffezione. L' alta inflazione si configura infatti, in questo caso, come messa in mora di denaro dal lato della produzione, ossia del capitale.
3 - Se un dato paese basa la propria economia sul turismo e l' esportazione (anche finanziaria), allorché abbia una forte inflazione, come l' Italia degli anni '70 – '80, finirà per avere un cambio monetario costantemente sopravvalutato, poiché il turismo provvederà ad equilibrare periodicamente la bilancia dei pagamenti. Questo fatto danneggia, a lungo termine, l' esportazione industriale, finendo per creare una barriera insormontabile all'esportazione stessa di beni e servizi.
§ 4: Profitti e sviluppo economico
1.1.1 - I “fisiocratici” parlavano di superabilità del mercato, nozione dimenticata dagli economisti successivi. Essi, tra l' altro, riconoscevano i vantaggi, per l' uomo, del mercato stesso (1), concetto indigesto alla quasi totalità degli economisti accademici contemporanei.
1.1.2 - Gli economisti “fisiocratici” interpretarono il progresso come sviluppo (del benessere) (2).
1.2.1 - Per gli “economisti classici” i profitti sarebbero un “residuo”, poiché essi consideravano fissi i salari (3). Gli ideologi filo-feudali fecero derivare da questa concezione l' idea dei salari come variabile indipendente. I cosiddetti “classici” parlavano di progressiva diminuzione dei profitti ed affermavano che tale fenomeno avrebbe condotto ad uno “stato stazionario” del “sistema economico” (4). Questo dimostra come essi intuissero come l' evoluzione strutturale dovesse portare ad una crisi del mercato e della fase mercantile. Essi tuttavia, ad eccezione di Marx e J. S. Mill, si astennero dall' auspicare il superamento della società mercantile, poiché intuivano come dovesse essere deleteria la situazione che ne sarebbe seguita (5).
1.2.2 - Smith rilevava come il profitto provenga dal capitale circolante per effetto del mercato (6). E' dunque nel mercato che si genera il profitto. Egli identificava i mezzi di acquisizione della capacità lavorativa come la fonte dell' accumulazione di capitale, accumulazione che può fornire, o meno, profitti, in rapporto alla misura in cui la capacità lavorativa acquisita venga utilizzata (7). Charles Kindlebergher evidenziava come, ove vi sia elevata propensione al risparmio, una variazione della distribuzione a favore dei salari non abbia necessariamente effetti negativi sullo sviluppo (8). E' quanto è avvenuto, ad esempio, in Italia, negli anni '70, dove lo sviluppo si è praticamente arrestato, ma non per la modificazione della distribuzione a favore dei salari, ma per l' incipiente transizione alla fase feudale. L' assunzione dei rischi mercantili da parte dei commercianti giustifica i loro profitti. La sedicente “scienza economica” non analizza a fondo la natura di tali rischi, derivanti dall'irrazionalità del comportamento umano e dalla stessa natura dei bisogni di origine strutturale. I rischi da investimento, intrinseci all' indisponibilità degli investimenti industriali o commerciali e derivanti dalla svalutazione monetaria, giustificano gli interessi reali (9) ed i profitti non reinvestiti. Il profitto, nei sistemi capitalisti burocratici, consiste in uno spread di entità minima, necessaria per costituire un' incentivo minimale per evitare disinvestimenti, specie in campo industriale, mentre in sistemi più vitali della fase mercantile può raggiungere percentuali molto elevate. Di tale percentuale solo una parte può essere considerata incentivo al risparmio (il quale ultimo sarà necessariamente tanto più elevato, in percentuale, quanto più sarà ristretto il mercato e quanto più la meta-teoria dominante sarà favorevole all' incremento immediato dei consumi, in antitesi alla possibilità di incrementare lo sviluppo). L' insieme del profitto può avere un'utilizzazione finalizzata: al consumo od all' investimento produttivo o sviluppo economico. Il prevalere di ciascuno di questi elementi dipende dal grado di propensione al risparmio od all' investimento improduttivo, a loro volta dipendenti dalla meta-teoria prevalente. Il profitto, ossia la percentuale di risparmi aziendali, considerati profitto, differisce (per l' azienda) dagli interessi sul credito, unicamente in quanto questi ultimi hanno la necessità di recuperare l' inflazione, mentre i profitti costituiscono (detratte le imposte) remunerazione del denaro investito (spread, oltre l'inflazione effettiva) ed, oltre a questo, costituiscono un'espropriazione economica, costituente oppressione economica e sociale a danno dei lavoratori, quintessenza ed effetto della realtà strutturale storica.
1.2.3 - Marx affermava che il profitto aumenti con lo sviluppo o progresso tecnico, ossia con la crescita della “composizione organica” del capitale e con la tendenza ad accrescere la concentrazione industriale. In realtà l' andamento del profitto deriva dall' andamento del valore d' uso delle merci prodotte. La concentrazione industriale non cresce necessariamente con il progresso tecnico, ma solo con una data evoluzione delle strutture statuali. Il livello dei profitti industriali dipende dal livello di estensione del mercato in senso geografico ed in senso qualitativo (connesso al momento specifico dell' evoluzione della fase mercantile). I profitti, nelle società delle fasi mercantili, vengono generalmente reinvestiti, a meno che non vengano utilizzati per accrescere il tenore di vita del percettore od utilizzati, nelle società di transizione alla fase feudale, per rafforzare l' organizzazione feudale della società. Il profitto d' impresa, devoluto ai dividendi è il premio che si conferisce agli azionisti, come remunerazione del capitale prestato (10), che è devoluto in gran parte a nuovi investimenti, come riconoscono anche i “classici”, mentre il profitto destinato direttamente agli investimenti interni dell' azienda (11) è generalmente accantonato come riserva (o semplice risparmio) ed in seguito viene passato a capitale, con distribuzione gratuita di “azioni” od aumento del valore delle “azioni” stesse (12). Le aziende “mobilitano il risparmio per nuovi investimenti” (13), ossia emettono nuove “azioni” per realizzare nuovi investimenti. Il profitto netto viene distinto in: una percentuale di interessi ed un “profitto residuale” (14). Quest' ultimo, se positivo, costituisce il compenso del rischio. Gli ammortamenti dei capitali impiegati sono quote contabili che l' azienda devolve a nuovi investimenti od alla liquidazione di prestiti (15). Il fatto che il “sovrappiù” si realizzi materialmente nella produzione è incontestabile (16), mentre il luogo ove tale sovrappiù si esplicita od acquista valore è la distribuzione. E' infatti nella distribuzione che i beni acquisiscono valore e si stabiliscono i criteri di distribuzione propri di ciascuna società. Questo è riconosciuto implicitamente dagli economisti (17). I “marginalisti” misurano la scarsità dei fattori dalla “produttività marginale”, ossia dall' aumento di produzione ottenibile con l'aumento unitario della disponibilità del fattore stesso, ossia la scarsità misura il contributo alla produzione di ciascun fattore; ove la remunerazione dei vari fattori è proporzionale alla loro produttività o contribuzione alla produzione (18). Pareto e Walras definivano tutti i fattori che intervengono nel processo produttivo capitalistico, ossia gli elementi del rapporto di produzione dei sistemi capitalisti. La “teoria marginalistica” afferma che la produttività di un bene è il principio stesso della sua utilità. E', infatti, l' uso a conferire valore ai beni e dunque la produttività o profittevolezza di un bene è assimilabile ad un' uso particolare: l' uso voluto dal consumatore. Le merci in transito sul mercato sono profittevoli se il loro valore d'uso si accresce ad ogni passaggio di compravendita. Al contrario, se perdono valore, come pure può accadere, hanno esaurito la loro profittevolezza. Si può definire valore d' uso nominale il valore d' uso socialmente stabilito per un dato bene, relativamente ad altri beni, quando tale valore, espresso dal prezzo, diverga dall' utilità attribuita dall'utilizzatore al bene stesso, ossia dal suo valore d' uso reale. Così, ad esempio, il valore d' uso della capacità lavorativa operaia in genere o di certi settori di operai, attribuito attraverso l' azione esasperata del movimento sindacale, rappresenta il suo valore d' uso nominale, può divergere da quello reale, ossia dall' utilità reale di tale bene, rappresentato dalla sua produttività. Tale divergenza è dimostrata dal livello di disoccupazione, specie se questo supera sensibilmente il livello di disoccupazione fisiologico, definibile come piena occupazione. Il valore d' uso reale dei beni rappresenta l' incremento di benessere apportato dal bene stesso. Si può definire profittevole la merce il cui valore d' uso reale superi quello nominale, non profittevole la merce il cui valore d' uso reale sia inferiore a quello nominale. Sono definibili come beni non profittevoli quei beni che non hanno finalità mercantile, la quale ultima consiste nell' accrescimento del benessere. Gli economisti definiscono saggio di profitto il rapporto tra profitto e costo della mano d' opera. Tale saggio varia, quindi, in modo diverso dal profitto stesso, per quanto abbia un' andamento analogo a quest' ultimo.
2 - Witold Kula affermava che una bilancia commerciale attiva sia economicamente meno positiva di una bilancia commerciale negativa, in quanto la seconda determina un maggiore sviluppo economico rispetto alla prima (19). In realtà vi è un legame indiretto tra deficit della bilancia commerciale e spinta allo sviluppo. Infatti il deficit commerciale spinge a ricercare progressi nella produttività, al fine di superarne le conseguenze dirette, ossia la contrazione dei consumi. Peraltro la reazione può essere diversa: alla spinta alla contrazione dei consumi si può rispondere con ulteriore rilassamento produttivo, in una spirale recessiva. Si può dire, pertanto, che il deficit commerciale, in sé un fatto negativo, possa avere effetti benefici se stimola a superare gli squilibri di bassa produttività che l' avevano generata. Si può affermare che il mercato sia un meccanismo di tipo a-strutturale od in sé estraneo alla realtà strutturale statuale, per la sua essenza di incontro tra domanda ed offerta di beni, dove si stabilisce un' equilibrio dei reciproci desideri e bisogni. Inserito nella realtà strutturale statuale, acquisisce elementi di disumanità che non gli sono propri. Esso, inoltre, è adulterato spesso da elementi di feudalità presenti nella fase mercantile. E' inoltre adulterato dalla realtà strutturale statuale, pur nella sua fase aperta o mercantile, poiché i bisogni dei singoli sono determinati dalla loro posizione nella cultura sociale e nella stratificazione in classi.
3 - Gli economisti distinguono tra “funzione del benessere sociale” ed “indice di benessere” (20). Con la prima indicano una funzione di benessere correlata agli indici di utilità degli individui, ossia indicano una quantità misurabile da cui si fa dipendere l' utilità, non misurabile, che ne ricavano i singoli individui. Con il secondo si intende una funzione di utilità dell' individuo, ritenuta non misurabile, essendo funzione di quantità non misurabili: gli indici di utilità. Ossia gli economisti, con Bergson, ritengono risolvibile il problema dell' ottima distribuzione del reddito, senza presupporre la misurabilità delle utilità individuali (21). Nella realtà strutturale organico – stratificata esiste una misura ordinale dell' utilità, dunque non misurabile e non comparabile.
4 - L' aumento della produzione può non incrementare il benessere a breve, ma a lungo termine determina accrescimento del benessere, poiché l' accumulazione di mezzi di produzione (nel senso della loro crescita, piuttosto che nel senso della maggiore concentrazione) genera ineluttabilmente aumento di benessere a medio-lungo termine. Alcuni osservatori hanno evidenziato come possa esistere “crescita economica”, ossia crescita del Prodotto Interno Lordo, in assenza di sviluppo, ossia in assenza di crescita del tenore di vita medio della popolazione, indicatore più valido dello sviluppo produttivo. Esempio di crescita senza sviluppo era, ad esempio, l'“Urss” degli anni '80, di cui era sempre più evidente anche l' arretratezza tecnologica (22).
§ 5 - Cause dello sviluppo produttivo e socio-economico
1 - Gli economisti parlano di sviluppo in “età dell' oro” allorché il “saggio di crescita naturale” ossia la crescita produttiva corrisponda alla crescita demografica ed uguagli il “saggio di crescita garantita” (1), dove quest' ultimo indica la crescita di investimenti, ed eguagli il risparmio disponibile. Queste definizioni indicano la possibilità di realizzare un alto risparmio ed un corrispondente saggio di investimenti in presenza di un basso indice di crescita dei consumi, inferiore al crescere della produttività. Nella fase dell' accumulazione, che può definirsi estensiva, del capitale, si ha presenza di quello che il “marxismo” definisce “esercito di riserva”, che sopperisce al sempre crescente bisogno di mano d' opera. Filologicamente, rendita equivale ad “interesse” (2) su un capitale. Il canone di affitto, nelle società mercantili, non è quindi definibile come rendita, bensì come profitto, essendo conseguenza dell' investimento di un capitale (e non di un puro deposito finanziario). Lo sviluppo delle rendite, nei sistemi segnoriali, è connesso allo sviluppo produttivo, connesso a sua volta alla prima accumulazione del capitale finanziario (3). Nella fase di espansione di tipo intensivo si ha invece espulsione dal mercato del lavoro di mano d' opera non rispondente ai bisogni della produzione: tale espulsione può avvenire fuori dal mercato del lavoro (pensione, “ammortizzatori sociali” vari) oppure verso un' area di occupazione marginale (4). I paesi cosiddetti “sottosviluppati”, per poter realizzare un autonomo sviluppo produttivo tale da essere definito “autogeno” od “autocentrico” devono, oltreché puntare sull'esportazione delle loro materie prime, puntare sullo sviluppo dei mezzi fondamentali del soddisfacimento dei loro bisogni, ossia sviluppare il settore agro-alimentare, edilizio, industriale e dei consumi primari. Questo assunto è riconosciuto valido anche da economisti locali come Edem Kodjo (5).
2 - Data l' estrema variabilità, che ne determina l' incalcolabilità, del consumo annuo di capitale, e poiché l' ammontare degli investimenti non è direttamente correlato con lo sviluppo dell' impresa, il risparmio d' impresa non può essere connesso direttamente con la crescita del valore del capitale, in termini mobiliari. La crescita del valore del capitale è corrispondente, percentualmente, allo sviluppo del valore aggiunto, al netto di crescite derivanti da investimenti esterni. Il valore fondiario del capitale avrà un andamento autonomo rispetto al valore mobiliare del medesimo (6).
3 - Gli economisti tendono a ritenere che le guerre siano una soluzione alle crisi da consumo che si manifestano nei sistemi capitalisti. Le distruzioni generalizzate, prodotte da una guerra molto estesa, possono creare in realtà nuovi sbocchi mercantili. Tuttavia il mercato si sviluppa generalmente su basi completamente diverse (per esempio sullo sviluppo tecnico-produttivo) e le guerre possono creare restringimenti anziché ampliamenti delle potenzialità espansive del mercato, come dimostra, ad esempio, la “prima guerra mondiale” (restringimento dovuto ad esempio alla transizione che si produsse in Russia verso la fase feudale). Gli economisti tendono a considerare le prospettive di sviluppo del mercato connesse pressoché esclusivamente al suo ampliamento geografico, mentre in realtà il mercato si sviluppa anche in profondità, in relazione al progresso tecnico – scientifico ed allo sviluppo dei bisogni, connesso a tale progresso.
4 - La concezione keynesiana del moltiplicatore parte dal presupposto che il consumo generi sviluppo. In realtà a generare sviluppo sono il risparmio e l' investimento. Le somme investite nel tempo, moltiplicate per la produttività assoluta, determinano il tasso di sviluppo del sistema, al netto dell' inflazione e di eventuali tesoreggiamenti di denaro e di merce (od investimenti improduttivi) (7). Keynes attribuiva agli “spiriti animali” o volontà di agire, la determinazione dei periodi in cui prevale “il clima di fiducia”, che determina a sua volta l' impulso economico all' espansione (8). L'allocazione delle risorse è dunque sottesa a tali impulsi irrazionali. Jones e wolf evidenziavano come tra le condizioni dello sviluppo vi sia quella di un incremento demografico inferiore allo sviluppo produttivo. L' alto tasso di disoccupazione, l'espansione demografica moderata od i flussi migratori, determinano stabilità salariale nel tempo e quindi possono dimostrarsi fattori di sviluppo produttivo. Questi stessi fattori favoriscono un'elevata mobilità lavorativa intersettoriale. Al contrario la situazione di stabilità demografica e piena occupazione possono generare tensioni sul mercato del lavoro: in tale situazione, pur manifestandosi l' esigenza di un' elevata mobilità inter-settoriale, questa diviene problematica e squilibrata. L' eccessivo incremento demografico si caratterizza come un' aspetto dell' oppressione sociale, indotto dall'“interesse generale” o meta-teoria dominante, accolta acriticamente dai singoli. In presenza di elevata oppressione economica, sociale e politica ed elevati sfruttamenti: economico, sociale e politico, l' eventuale progresso tecnologico non si trasforma in “decollo” o sviluppo produttivo, rimanendo confinato a certi settori produttivi ed è quindi classificabile come crescita senza sviluppo.
5 - I “fisiocratici” ritenevano il “capitalismo” un meccanismo capace di realizzare il massimo sovrappiù ottenibile (9), ossia di realizzare il massimo sviluppo produttivo. Essi non ponevano però l' accento sulla capacità del “capitalismo”, o meglio del mercato, allorché abbia raggiunto il massimo di espansione, di incrementare i consumi, ossia di realizzare la massima soddisfazione possibile dei bisogni, in presenza delle strutture storiche, di cui lo sviluppo produttivo non è che un aspetto ed un sintomo. Napoleoni affermava che l' “economia signorile”, come egli definiva il sistema borghese (ed a maggior ragione la fase feudale) non permetta lo sviluppo economico (10). Implicitamente dunque, sulla scorta dello stesso Marx, riconosceva la superiorità delle società “capitalistico-borghesi”, le quali ultime sole consentono l'accrescimento dell' occupazione e del tenore di vita delle popolazioni. Negli anni '70 del XX secolo si diffuse in vari paesi, come l' Italia, il concetto ideologico di “variabilità di modelli di sviluppo”. Tale concetto mascherava egregiamente i comportamenti tesi ad annullare qualsiasi prospettiva di sviluppo, pur presentando tali comportamenti come fortemente “progressisti”. E' evidente che si abbia sviluppo economico quando si realizza un incremento della produzione di beni, materiali od immateriali, volto ad incrementare la soddisfazione, quantitativa o qualitativa, dei bisogni. Se non si può definire autentico sviluppo uno sviluppo solo settoriale e squilibrato, che può anzi prefigurare un' inviluppo, lo sviluppo si ha solo nei sistemi propri delle fasi mercantili, privi di forzature. La produzione, nei sistemi feudal-burocratici centralizzati, con gli sprechi causati dalla programmazione centralizzata e dalla distribuzione a mezzo dell' annona, determina sprechi tali da causare stasi o regressione economica endemica, pur in presenza di un vitale mercato mondiale, come avvenuto per l' Oriente in una nuova fase feudale, mentre in Occidente era ancora vitale il mercato (anni '50 – '60 del XX secolo e.v.). Ostellino notava come un'ulteriore ripresa di vitalità del mercato mondiale non potesse che determinare il superamento del sistema decadente dell' “U.R.S.S.” e di pressoché tutte le società che si trovavano in una nuova fase feudale (11). I paesi “sottosviluppati” od a prevalente funzione di consumo, devono poter accumulare capitale onde passare ad una fase di elevata produzione. La possibilità concreta che questo si realizzi dipende dal sistema sociale in atto e dalla meta-cultura del popolo interessato: disposizione al lavoro, all'intrapresa, ecc. Il rincaro del prezzo del petrolio verificatosi nei primi anni '70, pur potendo determinare un accumulo per molti paesi “sottosviluppati”, trovando spesso condizioni inappropriate allo sviluppo, non ha determinato alcuno sviluppo reale. Siro Lombardini auspicava, negli anni '70, un' assunzione di responsabilità della collettività a proposito dei tassi di accumulazione (12). Questo, in modo mediato dai “sindacati” e dai “partiti”, avviene nei sistemi capitalisti burocratici. Nei sistemi capitalisti concorrenziali ed oligopolisti avviene attraverso una meta-teoria condivisa dall' insieme della popolazione. Lo sviluppo produttivo avviene esclusivamente nelle fasi mercantili, mentre nelle fasi feudali si realizza unicamente una produzione a mala pena sufficiente alla pura sopravvivenza. Tale produzione avviene dunque in agricoltura, mentre ogni altra produzione, che non sia la produzione di armi, è abbandonata o ridotta al minimo.
§ 6: Risparmi ed investimenti
1 - Lombardini evidenziava come sia difficile scindere, a livello teorico, il denaro impiegato in funzione di capitale, dal capitale stesso. Infatti, da molti economisti il capitale vero e proprio continua ad essere considerato denaro puro e semplice (1). Vi è tuttavia differenza sostanziale tra il denaro ed il capitale, in quanto l' “azione” (delle “società per azioni”) ha una “quotazione” relativa al valore del capitale. La compravendita di “azioni” non è che una transazione di parti di capitale. Il denaro differisce nettamente, anche quando è utilizzato per acquistare capitale, dal capitale stesso (2). Il denaro investito in capitale è denaro risparmiato. Allorché viene investito diviene capitale ed acquista un valore diverso, connesso all' andamento dell'economia, oltreché ai corsi di borsa. Lombardini riconosceva come il commercio sia un' attività produttiva (3). Questa considerazione pare acquisita ormai da parte degli economisti non “marxisti” in senso stretto. Gli economisti, come Lombardini, riconoscono implicitamente come il valore dei beni sia dato dalle diverse piazze del mercato o dai diversi mercati merceologici in cui si trattano i vari beni, poiché affermano che “uguali quantità di lavoro impiegate a diverse distanze dal momento iniziale dell' attività economica costituiscono quantità economicamente diverse” (4).
2 - La presenza di margini di risparmio indica la piena soddisfazione dei bisogni strutturalmente creati, a meno che non si tratti di risparmio minimo, dovuto all'incertezza del domani (là dove non vi è sicurezza di continuità di reddito). La concezione dei “marginalisti” afferma che il risparmio ed il consumo si determinino contemporaneamente, essendo il risparmio un “consumo pianificato nel tempo”. In realtà però solo parte di tale risparmio risponde a bisogni diretti, essendo il consumo differito volto ad accrescimenti patrimoniali, rispondenti a bisogni secondari od indiretti. Keynes riconosceva come il risparmio sia determinato essenzialmente dal livello di reddito corrente (5) ed i bisogni legati al risparmio stesso (6). Kenen, Fareed e Keesing hanno costruito un modello secondo il quale il capitale non entra come fattore produttivo a sé stante poiché non è, in definitiva, che “l' elemento che permette di migliorare la qualità” (7) dei fattori produttivi originari, ossia: terra e lavoro. Il capitale non è altro che il frutto del risparmio sociale e quindi valore attuale di una pregressa capacità lavorativa riconosciuta ed a cui non è seguito un consumo immediato. Non può dunque essergli attribuita una produttività, a meno di determinare uno sfruttamento socio-economico. Ragnar Nurkse evidenziava come l'emulazione, da parte soprattutto dei ceti medio-alti delle popolazioni dei paesi in “via di sviluppo”, dei livelli di consumo e degli standards di vita dei “paesi sviluppati”, diminuisca il risparmio in quei paesi, pur col crescere del livello assoluto di reddito. Questo fatto determina il blocco, od il rallentamento, dello sviluppo in quei paesi, determinando così il crescere, od almeno il permanere, del divario di reddito tra “paesi sviluppati” e non, con la conseguente percezione del decrescere del livello relativo del reddito reale nei “paesi sottosviluppati”, almeno finché perduri il loro boom di sviluppo demografico (8).
§ 7: Sviluppo tecnico-scientifico ed evoluzione strutturale
1 - Marx parlava di “plus – valore assoluto” per l' utilizzazione del lavoro umano e “plus –valore relativo” per l' utilizzazione delle macchine. Affermava che il secondo si sviluppi massimamente nel momento del massimo fulgore di quella che noi abbiamo definito le fasi mercantili, poiché riteneva che lo sviluppo tecnologico sia frutto diretto della fasi mercantili. Quest' ultima concezione, tuttavia, finisce per distorcere la percezione dell' evoluzione statuale e della natura stessa della società statuale.
2 - Nelle fasi statuali mercantili le merci hanno unicamente il valore d' uso, stabilito dalla società e manifestantesi nel mercato. L' eccedenza del valore d' uso sul costo di produzione determina il profitto. Se il valore d' uso della capacità lavorativa aumenta rispetto al costo della mano d' opera, si realizza una spinta allo sviluppo tecnologico, che a sua volta determina un' ulteriore incremento di profitto. Lo sviluppo tecnologico tende a rallentare se il valore d' uso della ricerca e dell'evoluzione tecnologica tende ad essere molto maggiore del valore d' uso della capacità lavorativa operaia, ossia se la ricerca ha un costo eccessivo.
§ 8: Origine della produttività
1 - Smith identifica produttività con profittevolezza (1). Questo venne poi utilizzato a fini ideologici filo-feudali da Marx. Smith riconosceva come il risparmio si trasformi in capitale: direttamente (come investimento) od indirettamente (come capitale finanziario) (2). Anche Marx identifica, ai fini della propria ideologia, la produttività con la profittevolezza. In realtà produttivo può esserlo solo il lavoro, mentre profittevole può esserlo ogni tipo di bene, se come valori d' uso sono portatori di benessere, ossia di soddisfazione dei bisogni dei singoli. Marx e gli economisti “classici” identificavano il lavoro produttivo con il lavoro profittevole e parlavano di lavoro improduttivo come di lavoro servile o di natura feudale e quindi non profittevole. Parlavano poi di lavoro produttivo come di lavoro utile. Il lavoro profittevole è, in realtà il lavoro proprio delle fasi mercantili, mentre quello non profittevole è quello proprio delle fasi feudali e quindi del lavoro servile. Per lavoro produttivo si deve intendere il lavoro connesso alla divisione orizzontale del lavoro, mentre quello non produttivo è quello connesso alla divisione verticale, o lavoro connesso all' organizzazione gerarchica del lavoro e connesso alla sussistenza della società strutturale stessa. Marx ed i “classici” parlavano di lavoro profittevole per il lavoro che genera profitti e genera quindi incremento delle possibilità di lavoro. Nelle fasi feudali tende a scomparire il lavoro profittevole ed il lavoro improduttivo a prevalere in modo assoluto sul lavoro produttivo. Marx affermava che lavoro produttivo sia quello che si concretizza in un prodotto. Questo in quanto egli considerava parassitario il commercio o lo scambio in genere. Marx affermava che fosse profittevole anche il lavoro delle gerarchie produttive e sociali in genere. Questo è vero per le gerarchie produttive delle fasi mercantili, sempre meno o per nulla per le gerarchie sociali delle fasi feudali. Gli economisti “marxisti” affermano che non vi sia produttività del lavoro manuale, essendo l' utilità frutto del concerto tra lavoro manuale ed intellettuale. I “marxisti”, come l' insieme degli economisti, ritengono non superabile la divisione verticale del lavoro. In realtà, se la realtà strutturale statuale non consente di superare la gerarchia sociale, né la gerarchia organizzativa nella produzione, è tuttavia possibile ritenere realizzabile, anche indipendentemente dal superamento della realtà strutturale statuale, il superamento della distinzione tra lavoro manuale ed intellettuale e questo lo si intuisce col progredire dell' automazione e dell' informatizzazione.
2 - I “marginalisti” teorizzano l' “elasticità della domanda” (3), data dal rapporto biunivoco o reciproco tra la variazione della quantità domandata e la variazione percentuale del prezzo (4) od “effetto di reddito” (5), il che prova quanto sia falso il concetto secondo cui il prezzo sia dato unicamente dal costo di produzione (6). Gli economisti definiscono “equilibrio di mercato” la situazione in cui “la quantità che gli offerenti desiderano vendere al prezzo che si è stabilito è uguale alla quantità che allo stesso prezzo i richiedenti desiderano acquistare” (7) e definiscono prezzo di equilibrio il prezzo che si determina in tale situazione. Definiscono stabilità d'equilibrio il problema della determinazione dell' equilibrio tramite successivi aggiustamenti di prezzi.
3 - La legge di Say sull' uguaglianza tra reddito e prodotto impiegato, non è immediatamente riscontrata poiché gli individui utilizzano la moneta per i loro acquisti ed hanno perciò la possibilità di variare le scorte monetarie (8): il che non dimostra la fallacia della legge di Say, ma dovrebbe far riflettere sulle cause delle crisi cicliche a ciclicità ventennale.
4 - I “marginalisti” affermano che il mercato concorrenziale esista fintanto che i gusti dei consumatori si possano considerare predeterminati rispetto al processo produttivo (9), ossia se il consumo non è direttamente dipendente dalla produzione, almeno in modo meccanico e totale (10). Si può tuttavia ritenere che il consumo non sia mai direttamente conseguente alle scelte produttive delle imprese, sebbene nei sistemi capitalisti oligopolisti e manageriali le imprese abbiano una maggiore possibilità di influenza sui gusti dei consumatori. Gli economisti ritengono che l'accrescimento di dimensioni consenta “economie esterne”, soprattutto di tipo finanziario (11). In realtà il massimo sviluppo del mercato e dell' economia mercantile richiederebbe si realizzassero piuttosto associazioni aperte tra produttori, al fine di ridurre il costo dei fattori della produzione, favorendo così una crescita produttiva che sia al contempo reale sviluppo. A tal fine si deve evitare di influenzare i prezzi di mercato tramite le suddette associazioni, ricercando unicamente la massima produttività. In tal modo si eviterebbero gli effetti deleteri, sul piano del mercato come su quello dei rapporti di produzione, dell' oligopolismo, consentendo il massimo sviluppo produttivo, ossia la massima espansione quantitativa e qualitativa del mercato. L' associazionismo aperto costituirebbe così un modello di organizzazione consono al mercato, ed atto a realizzare il massimo sviluppo. Questo è realizzato massimamente del sistema capitalista concorrenziale consolidato.
5 - Il mutare del reddito dei consumatori, anziché agire direttamente sul livello dei consumi, agirebbe attraverso una modificazione del “livello di aspirazione” (12), ossia una modificazione nella valutazione del proprio ruolo nella società. Tale concezione, mentre diverge parzialmente dall' analisi dei “marginalisti” (13), dimostra la totale inconsistenza dell' analisi dei “classici”, i quali ritengono i consumi stabili od al massimo varianti in rapporto diretto con i redditi. Il concetto di livello di aspirazione può essere utile a determinare le cause dell' evoluzione delle strutture statuali.
6 - Per incrementare la produttività del lavoro l'imprenditore può sollecitare i lavoratori. Tale sollecitazione, se efficace, assume l'aspetto di un' innovazione tecnologica introdotta nel processo lavorativo e riguardante il fattore lavoro anziché i mezzi di produzione. Con il consolidarsi delle fasi statuali mercantili si attua un processo di sollecitazione della capacità lavorativa e dell'impegno dei lavoratori. Si crea così un' innovazione tecnologica nel lavoro, conseguenza della superiorità razionale delle fasi statuali mercantili e generatrice di sviluppo produttivo e del benessere collettivo. La produttività è enormemente più alta nelle fasi mercantili rispetto alle fasi feudali. Questo avviene anche a parità di tecniche e tecnologie impiegate, per la maggiore razionalità di organizzazione del lavoro. Vi è poi una maggiore intensità di lavoro. La maggiore razionalità dell' organizzazione del lavoro si trasforma essa stessa in un salto tecnologico. Il tempo di lavoro si dilata, con la transizione ad una fase mercantile, poiché la finalità del lavoro diviene esclusivamente mirata al benessere. La capacità lavorativa viene valorizzata e quindi incentivata e sviluppata.
7 - I “classici” criticano i “marginalisti”, poiché questi ultimi propongono un equilibrio alla fine di ciascun periodo produttivo, ossia fanno un' analisi uniperiodale, e non già un' analisi dell' equilibrio nel tempo (14). Vi è in effetti il problema della conservazione dell' equilibrio nel tempo, specie tra la crescita e l' aumento della popolazione. L' “analisi marginalistica” considera unicamente il tempo presente, in cui ingloba sia il passato che il futuro, il quale ultimo conta per l' aspettativa che se ne ha (15). Questi sono indubbiamente limiti notevoli dell' “analisi marginalistica” (16). I “marginalisti” evidenziano come l' impiego di ciascun fattore produttivo sia fatto dall'imprenditore fino al limite per cui la produttività marginale del singolo fattore eguaglia il suo costo (17). Così, per il fattore lavoro il salario, per la terra il profitto agrario, per il capitale il saggio di interesse. Raggiunto tale limite per un dato fattore, l' imprenditore può operare per accrescere quei fattori che non hanno ancora raggiunto tale limite, rispetto agli altri: questo è realizzabile attraverso la mutazione delle tecniche produttive, fornite dal progresso tecnico-scientifico (18). I “marginalisti” analizzano la formazione dei prezzi dei vari fattori nei termini delle leggi di mercato (19). Le industrie si distinguono per alto e basso livello tecnologico: alle prime corrisponde generalmente un basso livello di qualificazione operaia, a basso livello tecnologico corrisponde invece un alto livello di qualificazione operaia. Vi è poi la distinzione tra alto e basso livello di “labour seaving”: quì invece le qualifiche crescono in modo direttamente proporzionale col crescere del livello di “labour seaving”. In base a queste tipologie di industrie si articola, peraltro, la divisione internazionale del lavoro.
8 - Marx arrivava ad affermare che il capitale e non il lavoro sia produttivo. Questo dimostra come Marx considerasse, in realtà, la fase mercantile come fase progressiva. Il capitale è produttivo in quanto lo è il lavoro. La produttività dipende dal rapporto di produzione e di consumo in atto.
9 - Proudhon considerava la mutevolezza dei bisogni come fonte del divario tra valore d' uso o “valore utile” e costo di produzione. Se per costo di produzione si intende il valore delle capacità espresse nella produzione del bene scambiato, il divario tra prezzo relativo o valore d' uso e costo di produzione non dipende solo dalla mutevolezza dei bisogni ma dalla loro irrazionalità od origine strutturale. Proudhon affermava che il forzare l' uno o l' altro di queste misure (20), si qualifica come “una rapina” (21), qualifica morale quest' ultima che egli attribuiva a quelle che noi definiamo fasi feudali (22). Tale divario consiste nel merito del lavoro stesso, la cui iniqua attribuzione determina l' oppressione economica. Proudhon attribuiva gran parte di tale divario alla natura della produzione collettiva, il cui risultato complessivo supera la somma dei contributi individuali. La produzione di fabbrica si basa, infatti, sul coordinamento del lavoro di gruppo o di “equipes” di individui interagenti al fine di realizzare un risultato univoco. Questo fenomeno può essere definito esternalità positiva d' impresa. Tale esternalità costituisce uno degli elementi del predetto divario tra capacità espresse e meriti. Ma la fonte principale di tale divario consiste sempre più nella strumentazione tecnica, consentita dalle applicazioni tecniche e tecnologiche delle scienze fisico-matematiche: la tecno-scienza. Tale strumentazione costituisce il “capitale fisso” d' impresa. Il “capitale fisso” giustifica la concezione ideologica della “produttività” del capitale (23). Per il “capitale fisso”, poiché si tratta di risparmi investiti, i riparmiatori hanno diritto alla conservazione, nel tempo, del valore dei loro risparmi e dunque alla conservazione del valore reale ed alla salvaguardia dai rischi d' impresa e commerciali. Ulteriori meriti (produttivi) devono essere attribuiti, come tali, a chi presta attività nell' azienda e per l' azienda, a seconda delle capacità di conservazione del valore reale d'impresa.
§ 9: Valore d' uso relativo e valore d' uso assoluto
1 - Gli economisti definiscono il prezzo: “prezzo assoluto”, per indicare il valore relativo dei beni in termini di bene numerario o moneta, mentre per i valori relativi parlano di “prezzi relativi” (1). E' possibile teorizzare un valore d' uso relativo (utile per analizzare l' andamento del valore d' uso effettivamente attribuito alle merci, indipendentemente dalle variazioni del valore d' uso del denaro). Tale valore d' uso relativo è misurato dal prezzo relativo, costituito dal rapporto tra il prezzo assoluto di una data merce con il prezzo del prodotto di minor valore d' uso esistente sul mercato. Naturalmente il rapporto deve avvenire tra unità di misura omogenee delle merci (ossia equivalente rispetto alla misura di soddisfacimento del bisogno proprio di ciascuna merce). Così ad esempio si può raffrontare 1 Kg. di mele (prezzo assoluto = € 1,00) con, ad esempio, 1 Kg. di patate (prezzo assoluto = € 0,25). In tal modo il prezzo relativo delle mele sarà uguale a 4 e questa è la misura del loro valore d' uso relativo , mentre il prezzo assoluto indica la misurazione del valore d' uso assoluto di quella merce, calcolata con una data moneta, su un dato mercato, valore d' uso determinato in ogni caso socialmente, ma occultato dal livello di inflazione effettivo e dal cambio in quel luogo di quella data moneta. Nel corso delle fasi mercantili il valore d' uso assoluto del denaro tende a decrescere, ed il suo valore d' uso relativo tende anch' esso a decrescere, nonostante il crescere della produzione e della produttività e la stessa circolazione del denaro. Tale fenomeno è in parte determinato dal crescere del livello dei bisogni, accentuato dal crescere del divario tra livello dei bisogni e livello dei beni disponibili (fenomeni inflattivi, come conseguenza del crescere del lavoro improduttivo). Solo una grave crisi propria della ciclicità ventennale può determinare un' aumento del suo valore assoluto e relativo. Il valore relativo dei beni è determinato dal rapporto tra i valori d'uso, od utilità reale, tra i vari tipi di beni, presi unitariamente. Il valore d' uso assoluto è espresso dal prezzo in denaro ed è quindi dipendente dal valore di quest'ultimo, valore che si sovrappone al valore relativo dei singoli beni. Nel corso dello sviluppo delle società industriali il valore d' uso relativo dei beni, specie quelli della produzione industriale, tende a decrescere, a causa del crescere della produttività. Tale andamento è ancor più evidente se si confronta, anziché il valore dei vari beni tra loro, il valore dei singoli beni con la capacità media di consumo o potere d' acquisto medio. Quest' ultimo confronto è il più significativo per la determinazione dei valori relativi dei beni.
2 - Poudhon considerava fonte del valore l' utilità o bisogno del compratore (2), proponendo così la corrispondenza tra prezzi relativi e valori d' uso. Il valore delle merci è il loro valore d' uso. Il mercato agisce in funzione livellatrice del valore delle merci e ciò avviene in rapporto al mutamento del valore d' uso della merce, in rapporto alla quantità di essa presente sul mercato e non, come pretendeva Marx, in rapporto al minor dispendio di lavoro per produrre quella merce. Il valore stabilito nel prezzo è il valore nominale, mentre il valore reale equivale al valore d' uso, stabilito socialmente. Il valore nominale diverge dal valore reale o d' uso, per l'inflazione, particolarmente rilevante in particolari momenti storici.
3 - Adam Smith affermava che la rarità renda un oggetto prezioso e riconosceva come sia l' utilità a determinarne il valore (3). Questo contraddice la sua stessa teoria del valore, poi utilizzata a fini ideologici da Marx. Smith riteneva naturale rispetto all'uomo lo scambio ed affermava che dallo scambio nasca la divisione del lavoro (4), che pertanto sarebbe da considerare anch' essa naturale. Lo scambio mercantile o libero, come la divisione orizzontale del lavoro, non sono in effetti in contrasto con la natura, mentre lo sono le strutture sociali in cui sono inseriti. Egli affermava che all'origine del libero scambio vi sia il bisogno di persuadere e di comunicare. La comunicazione infatti è libero scambio di opinioni, mentre il bisogno di persuadere può contenere elementi di sopraffazione. Smith affermava che il prezzo di un bene è determinato da:
1        domanda o bisogno del bene stesso;
2        abbondanza o scarsità del bene in rapporto al bisogno che se ne ha;
3        ricchezza o povertà di chi richiede il bene (poiché la media della
disponibilità di chi acquista determina la media dei prezzi).
Tale concettualizzazione dimostra come il prezzo si identifichi con il valore d' uso. Sulla base delle teorie di Kurt Lewin sulla valenza, sul valore di soddisfazione e sul valore di consumo si può affermare che il valore d' uso di un oggetto o merce sia strettamente connesso con il suo valore di consumo. Pertanto valore d' uso relativo di un “bene” e suo valore di consumo si identificano, essendo però il primo termine riferito alla società in generale ed il secondo al singolo individuo (5). E' evidente come il mercato garantisca la massima soddisfazione possibile dei bisogni dei singoli. Ogni volta che si realizza uno scambio si ha una mutazione economica del bene scambiato (6), poiché muta la piazza, la quantità ed il tempo dello scambio. Questo contraddice la “teoria classica” e quella “marxista” del valore. Lewin riconosceva come i beni abbiano valore economico indipendentemente dal fatto che siano oggetto di scambio (7). La teoria del valore basata sul valore d' uso come unico criterio di valutazione delle merci non contrasta con l' artificialità della società mercantile e della società statuale in genere. Il valore d' uso non contrasta con i vari tipi di società statuale, pur variando il parametro d' uso e dunque di valore dei beni. Il valore d' uso dimostra la natura ingiusta in quanto ineguale dei valori attribuiti, strutturalmente, ai vari lavori. Nelle fasi mercantili ogni individuo può, con la sua azione e le sue scelte, influire sulla determinazione sociale del valore d' uso delle singole merci. Tale facoltà è data dalle libertà economiche. L' andamento del “potere d' acquisto” dei vari ceti sociali può modificare il costo della vita od inflazione.
4 – Smith distingueva tra prezzo nominale (o prezzo di un bene, espresso in una data moneta) e prezzo reale (o reale quantità di beni che si scambiano con il bene trattato) (8), la cui differenza è data dalla mutazione del valore d’ uso, o prezzo, del denaro (all’ interno di quello specifico stato, ossia in base all’ inflazione).
5 – Smith definiva “prezzo naturale” il costo di produzione del bene stesso e lo distingueva dal prezzo di mercato o valore d’ uso. Tale concettualizzazione diede lo spunto a Marx per teorizzare il “valore di scambio”. Smith, tuttavia, affermava che “prezzo naturale” e “prezzo di mercato” siano inscindibilmente connessi (9). Egli analizzò una casistica di dicotomia tra “prezzo naturale” e “prezzo di mercato” nei casi di ostacoli al libero mercato, come il protezionismo, i monopoli e la tassazione eccessiva. In tali casi non si ha però prezzo di mercato, essendo il mercato forzato o distorto. Il concetto di “prezzo naturale” risulta così nient’ altro che il riconoscimento della naturalità dei prezzi di mercato, in condizioni di assenza di ostacoli al mercato: la condizione di perfetta concorrenzialità. In luogo dello smithiano “prezzo naturale” si può teorizzare, più correttamente,il prezzo medio, indicante il prezzo di un bene, liberato dalle oscillazioni di mercato, come teorizzato dallo stesso Smith (10).
6 – La “valenza” (11) o valore d’ uso dei beni è il valore reale loro attribuito socialmente. Alcuni sociologi parlano poi di “valore di consumo” di quel dato bene, come della sua reale capacità di soddisfare i bisogni. Il divario tra “valenza” o “valore d’ uso” e “valore di consumo” si può definire oppressione di tipo sociale.
7 – Gli economisti si accapigliano sulla disputa intorno alla determinazione dei prezzi: se i prezzi siano determinati dall’ equilibrio tra domanda ed offerta o dai costi di produzione (12). Essi non si avvedono della vacuità della loro discussione. La domanda totale non è che la disponibilità totale di denaro, mentre l’ offerta totale non è che la quantità totale di merci prodotte e vendibili. La crescita o diminuzione del livello generale dei prezzi non fa che rispecchiare il divario che si crea tra denaro e merci (che di per sé dovrebbero equilibrarsi), potendosi tesoreggiare sia il denaro che le merci. Il denaro è tesoreggiabile allorché si determina un consumo mancato (od un accrescimento di stock di moneta disponibile), le merci sono tesoreggiabili allorché si attuino investimenti improduttivi (od accantonamento di scorte) o consumi improduttivi. Il prevalere di una delle due forme di tesoreggiamento determina rispettivamente crisi da produzione o crisi da consumi, che si alternano mediamente ogni dieci anni, in una ciclicità ventennale. Gli economisti invece parlano di domanda come di propensione all’ acquisto od al consumo, introducendo cioè un concetto metafisico. Parlano di offerta come di propensione alla vendita o produzione. Parlano di costi come di “valore di scambio”, ossia introducono un’ altra entità metafisica. Tali definizioni lasciano nel mistero l’ andamento dei prezzi. Volendo poi quantificare le entità metafisiche enunciate, adottano calcoli di alta matematica, finendo per identificare, di fatto, la propensione al consumo con il consumo effettuato e la propensione alla produzione con la produzione realizzata. In tal modo riescono ad obliare il fatto reale dei tesoreggiamenti o messa in mora di denaro o di merce, lasciando inesplicato l’ andamento produttivo e di consumo nonché dei prezzi.
§ 10: Mercato e teoria razionale del valore
1 - Con il superamento di quello che gli economisti definiscono “capitalismo classico”, il mercato finanziario assume un ruolo preponderante e quindi si accresce il divario tra risparmio ed investimenti (1). Gli economisti attribuiscono a questo fatto il prodursi delle crisi cicliche. Gli squilibri normali o frizioni (2) tra domanda ed offerta sono ripianati facilmente attraverso i meccanismi stessi del mercato (3), salvo il prodursi delle crisi, a cadenza decennale, derivanti dalla ciclicità ventennale. Gli economisti non distinguono con sufficiente chiarezza tra “squilibri strutturali”, connessi all' evoluzione dell' universo strutturale statuale e squilibri congiunturali o ciclici (4).
2 - La valutazione razionale del capitale di un' impresa è data dal valore di mercato di tutti gli investimenti effettuati, corretta da vari elementi quali: le prospettive di mercato del settore, il tempo della sostituibilità degli impianti, il grado di desuetudine o di innovazione degli impianti stessi, il tasso di utilizzazione media degli impianti o tasso di capitale in mora e la produttività del capitale umano. Il valore del capitale così calcolato sarà confrontato col denaro impegnato dagli investitori esterni, rivalutato in rapporto all' inflazione effettiva, ossia considerato l'investimento netto od esposizione netta. Tale confronto consentirà di stabilire lo stato di salute o di redditività della singola impresa. Il valore “borsistico” sarà confrontato col valore del capitale, per stabilire se si sia o meno in presenza di posizioni speculative. La redditività delle singole società consentirà di valutare l'operato degli amministratori e di tutti i responsabili dei fattori dell' impresa ed infine sarà la fonte della valutazione sociale dell' opportunità di far sopravvivere l'impresa. Considerata la parità tra investimento netto e valore del capitale ed equiparato al “valore borsistico”, i profitti realizzati, al netto dei necessari ammortamenti per la conservazione del valore del capitale, saranno considerati crescita netta dell' impresa.
§ 11: Rapporto tra capacità lavorativa e bisogni dei singoli
1 - Marx, nel libro terzo del “Capitale”, affermava che la caratteristica della società “capitalistica” non sia il pluslavoro, ma la sua trasformazione in capitale, che egli identificava con la sua appropriazione da parte dei “capitalisti”, anziché da parte dei “produttori associati” (1). Egli cioè stigmatizzava quello che noi definiamo sfruttamento ed oppressione di tipo sociale, che si manifesta anche nelle società di tipo capitalistico, seppure in modo non esclusivo né preminente. Egli auspicava un controllo sociale effettivo della produzione onde commisurarla qualitativamente e quantitativamente al “bisogno sociale reale” dei singoli produttori (2). Egli, cioè, auspicava, teoricamente, una società ove cessasse l' oppressione sociale, ossia la distorsione della soluzione del problema allocativo delle risorse. Tale società egli la definiva “seconda fase del comunismo”, mentre nella “prima fase del comunismo”, sebbene egli immaginasse che “il lavoratore stesso si appropri del suo pluslavoro, dell' eccedenza dei valori che egli ha creato sull' eccedenza dei valori che egli ha consumato” (3), come egli affermava nelle “Teorie sul plusvalore”, si supererebbe solo quello che noi definiamo sfruttamento sociale ed economico. Lo sfruttamento di tipo economico sarebbe superato in quanto la distribuzione sarebbe regolata secondo “l' esatta proporzione delle differenti funzioni lavorative con i differenti bisogni”. In questa supposta seconda fase si supererebbe anche quella che noi definiamo oppressione economica, poiché i lavoratori potrebbero decidere della “parte della produzione comune consumabile individualmente” (4). Egli tuttavia ritenne che il pieno superamento di quello che noi definiamo sfruttamento economico non possa avvenire che in conseguenza del superamento del lavoro materiale e lavoro irrazionale in genere. Ossia, quando il lavoro sarà il “campo dell' autorealizzazione della personalità umana”, ossia un lavoro espressione dell' autorealizzazione e quindi coerente con i bisogni, potendosi così realizzare la “ripartizione secondo i bisogni” (5). Egli, in tal modo, finiva per collocare la “seconda fase del comunismo” in un futuro che egli intuiva assai remoto se non del tutto utopistico e descriveva anche la sua ipotizzata “prima fase del comunismo” come una società (che egli considerava) del tutto irreale ed irrealizzabile.
2 - Contrariamente a quanto affermato da Erich Fromm, il quale diceva che l' essere sia evidenziato dalle capacità espresse, mentre l' avere sia commisurato ai bisogni, e dunque supponeva esservi un divario tra le due entità, non vi è divario tra capacità espresse e bisogni autentici manifestati (6). Il rapporto diretto che si instaura necessariamente tra capacità lavorativa e bisogni è dovuto alla connessione di entrambi alla capacità intellettiva. L' espressione effettiva della capacità lavorativa ed il valore attribuito al risultato di tale espressione di capacità, possono essere a loro volta, connessi col grado di socialità. La capacità intellettiva si distingue in: capacità pratica (diversa dalla capacità di attività manuali), capacità razionale – conoscitiva e capacità affettiva. Vi è un grande divario tra desideri e capacità reale di consumo, analogo al divario tra desiderio di fare e capacità lavorativa realmente espressa o tale quale il soggetto è in grado di esprimere. Vi è invece una corrispondenza automatica tra capacità effettiva di fare e capacità reale di consumare. La fondatezza del rapporto inscindibile tra capacità e bisogni è evidenziata da un esperimento, condotto negli anni '80 in alcuni ospedali psichiatrici Usa, come ad esempio a New York, dove venivano date ricompense in base a capacità progressivamente acquisite e tali ricompense parevano soddisfare bisogni progressivamente crescenti dei soggetti, dimostrando altresì l' incidenza che tali ricompense avevano nello stimolare l' acquisizione di nuove capacità, sebbene in tali esperimenti non si tendesse a realizzare l' equilibrio tra capacità acquisite ed entità della ricompensa. Se il principio aristotelico teorizza una generale e generica eguaglianza tra capacità espresse e bisogni, occorrerà distinguere i bisogni e le capacità di origine strutturale dalle capacità e bisogni di origine interna ai singoli individui. Ogni individuo trova, inoltre, un proprio equilibrio tra bisogni di tipo materiale e bisogni di tipo immateriale, il quale rispecchia un analogo equilibrio tra le capacità materiali, richieste dalla tecnica produttiva e comunicativa in atto. Il valore d' uso delle capacità lavorative espresse è eguale ai bisogni effettivi di quel dato individuo. Il divario tra capacità espresse e bisogni manifestati, nella realtà strutturale, è dovuto al fatto che, mentre dal lato delle capacità la maggior parte delle persone non riesce ad esprimere che in minima parte le capacità possedute, dal lato dei bisogni la semplice espressione dei desideri è confusa con i bisogni manifestati, mentre con quest' ultimo termine si dovrebbe intendere l' effettiva capacità di godimento dei beni. La corrispondenza di fondo tra capacità espresse e bisogni espressi è evidenziata dalla constatazione di una diminuzione dei bisogni in corrispondenza delle diminuzioni, in seguito a patologie, delle capacità espresse, almeno ove tale riduzione di abilità sia permanente. Questo, anche se la soddisfazione dei bisogni più elementari può divenire molto oneroso, per tali soggetti.
3 – Gli economisti accademici sostengono la tesi secondo cui la crisi del mercato ed il suo successivo superamento siano determinati dal venir meno della capacità di consumare tutto quanto l' incremento della produzione consente di immettere sul mercato. E' questa la tesi prevalente tra gli economisti e gli storici. E', invece, evidente come forti progressi della tecno-scienza generino salti nella capacità e volontà di consumo da parte delle popolazioni.
4 - Il principio aristotelico dell' equivalenza, in ogni individuo, tra bisogni e capacità, costituisce la premessa di validità del principio “socialista”: “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Tale principio, se effettivamente posto a base di una società attuerebbe quantomeno l' equità sociale, consentendo di dare ad ognuno l' equivalente di quello che egli stesso ha dato, realizzando una società equa. Tuttavia, poiché nessuna società sarà mai autenticamente razionale se non si baserà sulla scienza dei bisogni e della natura umana, non è escluso che al di là delle apparenze di un equilibrio tra capacità e bisogni di ogni singolo individuo, vi sia una effettiva discrepanza tra i bisogni e le capacità o l' oblatività dei singoli. In tal caso, la documentabilità di una tale naturale discrepanza, condurrà alla realizzazione di un nuovo equilibrio sociale basato sulle effettive propensioni naturali dei singoli, il quale sarà un equilibrio razionale, se basato su un contratto esplicito e cosciente o coscientemente accettato e modificabile nel tempo, al modificarsi delle propensioni dei contraenti (7). Il principio: “dare secondo le proprie capacità ed avere secondo i propri bisogni”, oltre a consentire l' equità sociale, consente di conoscere e valutare correttamente i reali bisogni dei singoli, essendo comparati esattamente alle capacità effettivamente espresse, mentre in genere sono di difficile conoscenza per gli stessi soggetti. Si può ipotizzare che in un individuo equilibrato vi sia una corrispondenza di fondo tra le sue doti mentali o capacità generali potenziali ed i suoi bisogni effettivi complessivi. Analogamente vi sarà una corrispondenza tra capacità manifestate, nei vari campi dell' agire umano, ed i vari generi di bisogni del soggetto. Così, vi sarà corrispondenza tra capacità professionali manifestate e bisogni materiali. Inoltre vi sarà corrispondenza tra capacità effettive manifestate e bisogno di conservazione della capacità produttiva realizzata e tra questo bisogno e la capacità della soddisfazione di questo stesso bisogno. Analogamente vi sarà corrispondenza, nei campi delle relazioni interpersonali o dei rapporti sociali, tra capacità operative e creative e rispettivi bisogni, nonché tra i corrispondenti patrimoni (in termini di capacità) acquisiti e bisogni e capacità conservative. Può esservi, nei vari momenti della vita di ogni individuo, uno squilibrio tra bisogni e capacità. In realtà, in gioventù, gli individui hanno vasti desideri e pochi bisogni cristallizzati, analogamente alle scarse capacità e vasti desideri di fare, oltreché di essere. Nell' età adulta e nella maturità, analogamente alle vaste capacità vi saranno vasti bisogni cristallizzati. Con la vecchiaia i bisogni decrescono col decrescere delle capacità espresse. L' equilibrio tra bisogni e capacità espresse è dunque presente nella vita umana, in generale. Si può ipotizzare che i bisogni non siano commisurati alle capacità lavorative espresse, in ogni particolare momento dato, ma soprattutto alla volontà effettiva ed all' impegno reale ad acquisire un dato livello di capacità. La raggiunta piena razionalità dei comportamenti umani, condizione teoricamente e finalisticamente realizzabile, determinerà la piena razionalità del rapporto di scambio, in ogni ambito dei bisogni e delle capacità espresse, siano esse di tipo materiale od immateriale. Si avrà quindi la razionalità in tutti i rapporti umani, i quali sempre sono di produzione e/o scambio di beni di ordine materiale o sociale.
5 - L' irrazionalità presente nel comportamento umano, a tutti i livelli ed in ogni campo, determina lo sfruttamento e l' oppressione sia in campo economico, sociale e politico. Il mercato è una bilancia che consente di misurare i bisogni e rapportarli ai beni che si presentano sul mercato stesso. Se i comportamenti sono irrazionali, così nell' espressione dei bisogni come nella produzione di beni, il mercato non può che registrare tale irrazionalità, senza attenuarla od accentuarla.
6 - Avendosi la distribuzione con metodi feudali, saranno misurati non i bisogni e le capacità espresse dai singoli ma i bisogni della casta dominante ed il grado di fedeltà a questa, espressa dalle caste sottomesse attraverso la produzione e messa a disposizione dei beni. Per tale forma di distribuzione è assolutamente inadatto il mercato.
§ 12: Capacità lavorative possedute e capacità lavorative espresse
1 - Le capacità lavorative possedute sono diverse dalle capacità lavorative espresse per i limiti alla razionalità frapposti dalla realtà strutturale (1). Le potenzialità psico-fisiche e le capacità possedute da un individuo riguardano essenzialmente l'individualità del soggetto, mentre ciò che egli fà, ossia l' estrinsecazione delle sue capacità, oltre a riguardare la socialità del soggetto, riguarda la società nel suo insieme. E' bisogno fondamentale del soggetto l' auto-realizzazione piena di sé stesso, ossia l' espressione compiuta delle capacità acquisite. Oltre alla professionalità, necessaria come preparazione tecnica ad esercitare un determinato ruolo, gli individui necessitano di una particolare abilità connessa al proprio status o collocazione all'interno della gerarchia sociale. L' espressione di tale abilità compensa spesso il mancato pieno esercizio delle capacità psichiche o manuali acquisite, per la natura del particolare lavoro che l' individuo è costretto a compiere. Il divario tra la conoscenza acquisita dagli individui e la loro capacità di applicazione di detta conoscenza alla realtà concreta dipende da molti fattori, quali: il senso pratico, le capacità psichiche del soggetto, ma soprattutto l' irrazionalità della realtà strutturale storica, essendo quest' ultima basata sull' inganno e sull' impostura. Analogo divario si manifesta sul versante dei bisogni, poiché i bisogni che giungono alla coscienza dei singoli presentano un divario con la manifestazione che gli stessi individui fanno dei loro bisogni. Anche in questo caso agiscono cause di ordine psichico e psicologico, ma soprattutto di ordine strutturale. La distinzione più precisa tra “essere” ed “avere” sta, oltre ai vari tipi di sfruttamento ed oppressione, nel divario tra capacità intellettive e possibilità concrete (intrinseche ed estrinseche all'individuo) di realizzazione od espressione di tali capacità. Il divario tra le potenzialità e le capacità effettivamente realizzate e quelle realmente esternate o manifestate è conseguenza dell' innaturalità ed imperfezione della realtà strutturale storica e costituisce un limite alla piena realizzazione dell' essere di ciascun individuo. Il divario tra capacità lavorative possedute e capacità lavorative espresse può derivare anche da irrazionalità del soggetto o blocco emotivo od impedimento nella soddisfazione dei desideri endogeni.
2 - Si può ipotizzare, a priori ed a livello potenziale, che i bisogni umani siano pressoché uguali per ogni individuo, mentre le capacità espresse divergono grandemente, date le diverse predisposizioni, innate od acquisite e la forza o capacità di applicare le predisposizioni e le capacità acquisite. Data la limitazione delle risorse non è però possibile ipotizzare un criterio distributivo più equo di quello basato sulle capacità espresse, anche perché il bisogno, pur ipotizzato tendenzialmente eguale in ogni individuo, diviene effettivo solo se si manifesta e diviene cosciente in rapporto al grado dell' attivarsi della psiche, la quale attivazione sarà segnalata tanto dal manifestarsi delle capacità quanto dal manifestarsi dei bisogni. Se dunque potenzialmente i bisogni si possono ipotizzare uguali per ogni individuo, analogamente l' eguaglianza psichica può consentire di acquisire e manifestare eguali capacità espressive. Finché vengono manifestate in modo difforme, in modo altrettanto difforme devono essere distribuiti i beni, siano essi beni di tipo materiale od immateriale.
3 - La misura delle capacità lavorative di ciascun individuo si può valutare equamente poiché ha un effettivo valore d'uso o prezzo. Si può valutare equamente tenendo però conto del valore d' uso della capacità lavorativa effettivamente espressa, tendendo costantemente ad uniformarla alle capacità lavorative possedute.
4 - Spencer, come Marx, ritenne che la meccanizzazione riducesse il valore d' uso (che Marx definiva “valore di scambio”) dei prodotti. Questo avviene, nella realtà, solo per cause indirette, dato l' incremento quantitativo dei prodotti disponibili. Questo fatto non danneggia il lavoratore poiché il valore d' uso della sua capacità lavorativa (socialmente determinato) rimane pressoché invariato, pur con il crescere della gerarchizzazione tecnico-produttiva in fabbrica la quale, se da un lato porta ad utilizzare solo una parte della capacità lavorativa dell' operaio, d'altro canto l'operaio ricava un beneficio dal diminuire del valore d' uso delle merci, potendo consumare in misura maggiore, pur ricavando un maggior disagio dal crescere della divisione verticale del lavoro (2). Vi è una differenza tra valore d' uso delle merci prodotte da un determinato individuo ed il valore d' uso delle capacità lavorative possedute da quello stesso individuo (al di là del fatto che vi è un grande divario tra le capacità lavorative possedute e quelle effettivamente espresse). Il valore d' uso delle merci prodotte ed il valore d' uso delle capacità lavorative espresse divergerebbero anche in assenza di sfruttamento ed oppressione economici. Rawls distingueva tra frutto del lavoro individuale e frutto collettivo del lavoro, evidenziando l' effetto moltiplicativo dell' attività collettiva. Questa distinzione adombra la distinzione tra capacità di lavoro e capacità produttiva. Egli propose infatti per la prima una distribuzione commisurata alle capacità individuali e per la seconda una distribuzione egualitaria “a meno che una distribuzione diversa non sia vantaggiosa per i meno favoriti” (3), adombrando così una distribuzione della responsabilità sociale, commisurata alla capacità di sopportazione della responsabilità stessa. Occorre distinguere tra capacità lavorativa espressa e risultato dell' espressione di tale capacità. La prima è valutabile nel tempo, in quanto variabile in base al variare dell'impegno lavorativo e psicologico. La seconda, deriva dalla valutazione attribuita, in termini di valore d'uso, dai consumatori, al prodotto del lavoro. Tale valutazione è determinata non solo dal valore delle capacità lavorative realmente espresse (o merito lavorativo) ma anche dal merito del prodotto realizzato (merito produttivo). Tale ultima forma di meriti costituisce la base dell'attribuzione della responsabilità del capitale accumulato, in una società basata sull' equità, poiché il differenziale tra capacità lavorative espresse e valore delle merci prodotte e vendute costituisce l'essenza dei profitti e dunque dell' accumulazione di capitale. L' accumulazione di capitale costituisce la base della valutazione delle responsabilità, in base appunto ai meriti per la realizzazione del prodotto o meriti produttivi.
§ 13: Meriti di tipo strutturale e meriti razionali e loro relazione con le capacità espresse
1 - Le capacità espresse dagli individui sono definibili come meriti lavorativi o personali. Essi sono diversi dai meriti operativi o produttivi, consistenti nel frutto effettivo del lavoro. Le capacità espresse ed i bisogni, di qualsiasi genere, ineriscono al piano economico, mentre le responsabilità operative, conseguenze dei meriti produttivi acquisiti, ineriscono al piano sociale.
2 - I meriti degli individui furono definiti da J. J. Rousseau come “favore” (1). I meriti personali a cui egli si riferisce consistono, in realtà, nelle capacità personali manifestate o manifestazione dell' essere (2), che egli distingueva nettamente dal valore della produzione, da lui definito “servizi effettivamente resi” (3). Nell'universo strutturale statuale la ricompensa, quando è maggiormente equa, si basa sul “merito”, dove per “merito” si intende la proporzionalità della retribuzione con la produttività del soggetto. Tale “produttività” del singolo dipende, in realtà, solo in parte dalle sue capacità espresse e dall' impegno profuso nel lavoro, dipendendo prevalentemente dalla valorizzazione che assume il frutto del suo lavoro, in modo del tutto avulso dalle capacità che egli ha espresso. Si scambia, infatti, la sfruttamento con l' oppressione, in modo da salvaguardare e perpetuare sia l' uno che l' altro. Il merito operativo o produttivo, secondo la nostra definizione, equivale ai frutti della casualità connessi al lavoro, ma soprattutto all' irrazionalità ed incontrollabilità delle scelte di consumo.
3 - La responsabilità è l' esercizio di un bisogno: il bisogno di conservazione, derivante a sua volta dal desiderio di sopravvivenza. Gli oggetti su cui si esercita la responsabilità sono lo strumento di espressione del suddetto bisogno. La soddisfazione di tale bisogno sta nel successo dell' azione conservativa, che garantisce la continuazione dell' esercizio della responsabilità e quindi la soddisfazione del desiderio di sopravvivenza. La responsabilità attiene all'espressione del merito operativo, la cui attribuzione corretta evita il costituirsi dell'oppressione, nelle sue varie forme. La responsabilità consiste anche nel bisogno di progresso nella manifestazione del proprio essere. Il progresso non è tuttavia disgiungibile dalla conservazione di quanto realizzato in precedenza ne delle proprie facoltà, che includono la possibilità del progresso stesso. La corrispondenza tra meriti operativi del soggetto ed i suoi averi (in ogni campo dell' azione umana) renderebbe gli eventuali divari tra coscienza e comportamento non più generatori di rimorsi ma prevalentemente di spinta propulsiva verso più elevate mete morali, nel comportamento dei singoli. La capacità di sopportazione della responsabilità della conservazione ed implementazione dei beni sotto il proprio controllo, varia da individuo ad individuo.
4 - Ciascun individuo può raggiungere uno stadio di maturazione tale da renderlo pienamente responsabile di sé stesso e di tutto ciò che concerne la propria vita ed il proprio avvenire. Questo stadio può essere indicato come piena maturità adulta del soggetto.
5 - Un aspetto di quello che abbiamo definito oppressione e che assume i seguenti aspetti: economica, sociale e politica, consiste nel negare a ciascuno il rispetto che gli è dovuto, concretizzantesi nell' indifferenza o nel disprezzo del valore del “sistema di fini” di ciascuno o “senso del proprio valore” (4) che ogni individuo attribuisce liberamente a sé stesso. La mancata autonomia dei singoli di determinare i propri bisogni ed il mancato riconoscimento della capacità di responsabilità economico – sociale è un aspetto dell' oppressione economica e sociale attuata dalla realtà strutturale storica.
6 - I meriti operativi, depurati dalle oscillazioni economiche dovute al comportamento irrazinale dei soggetti, indicano la capacità di responsabilità dei soggetti stessi.
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