Divina Commedia/Inferno/Canto III: differenze tra le versioni

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{{quote|Per me si va ne la città dolente,}}
*1.'''Per me si va...(1-9)''': Questi versi sono l'iscrizione posta in alto sulla porta dell'inferno, a somiglianza delle epigrafi metriche che si trovano sulle porte delle città medievali; essi suonano come solenne ammonimento a chi entra. Poste così in apertura di canto, con la didascalia posticipata (vv.10-1), queste parole sono anche il solenne inizio del vero e proprio ''Inferno'' dantesco.
*'''Per me''': attraverso di me. È la porta stessa che parla. L'anafora (il ''per me'' è ripetuto tre volte) sottolinea il senso terribile e inesorabile delle parole.
*'''la città dolente''': la città è detta «dolente», perché nel dolore vivono tutti i suoi abitanti. L'inferno si definisce appunto dal dolore, che è la sua prerogativa eterna. La figura della città nasce dalla biblica città celeste (''Apoc.'' 22, 14) ricordata anche in I 126; la «porta inferi», nota alla fantasia popolare, si trova in ''Matth.'' 7, 13 e 16, 18. Ma la stessa idea della porta d'entrata al mondo dei morti ha il suo grande precedente letterario nel VI dell' ''Eneide'', come tutta la struttura figurativa del canto.
 
 
{{quote|per me si va ne l'etterno dolore,}}
*2.'''ne l'etterno dolore''': spiega e intensifica il ''dolente'' del v.1. Tutta la terzina è una variazione sullo stesso tema, il dolore, attribuito prima alla città, poi alle persone (''la perduta gente''), e isolato al centro con il suo tragico aggettivo ''etterno'', che sarà il tema della terza e ultima terzina dell'iscrizione. Per la grafia di ''etterno'' cfr. nota a I 114.
 
 
{{quote|per me si va tra la perduta gente.}}
*3.'''perduta gente''': gente che si è perduta per sempre, quindi dannata. ''Perduto'' si trova in questo senso nel poema anche sostantivato (''due perduti'': XXV 72). La parola indica chi ha perso per sempre la propria strada, e quindi Dio, e la felicità (cfr. più oltre v.18).
 
 
{{quote|Giustizia mosse il mio alto fattore;}}
*4.'''Giustizia mosse...''': la giustizia mosse Dio a crearmi (''fattore'' è usato più volte da Dante per indicare Dio creatore; cfr.XXXIV 35; ''Purg.'' XVI 89; ''Par.'' VII 31; ecc.): l'inferno è quindi espressione della suprema giustizia di Dio, come più volte si ricorderà nella cantica. Si veda la nota ai vv.5-6.
 
 
{{quote|fecemi la divina podestate,}}
*5.'''facemi''': si veda la regola ricordata nelle note linguistiche al canto I, v.67, che da qui in avanti daremo per conosciuta.
*'''podestate... sapïenza... amore''': sono gli attributi delle tre persone della Trinità (cfr. ''Conv.'' II v 8:«la potenza somma del Padre... la somma e ferventissima caritade de lo Spirito Santo»). Nell'inferno è quindi presente anche l'amore, come in tutte le opere di Dio; questa idea è essenziale, come si vedrà, per comprendere lo spirito della cantica, e la figura dell'uomo infernale secondo Dante. La terzina eleva l'inferno che qui si raffigura alla dignità assoluta di opera divina, e toglie quindi fin d'ora alla rappresentazione ogni carattere di arbitrio o di casualità.
 
 
{{quote|la somma sapïenza e 'l primo amore.}}
*6. Le tre figure della Trinità: la '''divina potestate''' è Dio, la '''somma sapienza''' lo Spirito Santo, il '''primo amore''' è Gesù Cristo.
*6.
 
 
{{quote|Dinanzi a me non fuor cose create}}
*7.'''Dinanzi a me...''': prima di me furono create soltanto cose eterne (cioè, nell'universo dantesco, i cieli, gli angeli, la materia prima); l'inferno infatti, come si desumeva dalla Scrittura (''Matth.'' 25, 41), era stato creato subito dopo gli angeli, per la ribellione di parte di essi con a capo Lucifero, ribellione che secondo Dante, che segue in questo san Tommaso, era stata immediata (cfr. ''Conv.'' II, v 12 e ''Par.'' XXIX 49-51). Le cose corruttibili (forma della terra, piante, animali, e tutti i corpi sublunari in genere) erano state quindi creato dopo di esso.
 
 
{{quote|se non etterne, e io etterna duro.}}
*8.'''etterno''': eterno vale qui per «sempiterno», cioè senza fine, come al v.2; eterno in senso assoluto, cioè senza principio né fine, è infatti soltanto Dio (così già precisava l'antico commento di Giudo da Pisa).
*'''etterna duro''':''etterna'' è aggettivo predicativo: in eterno, eternamente (Vandelli). Il testo è modificato rispetto all'edizione Petrocchi; il Petrocchi preferisce la lezione ''etterno'', inteso come latinismo, cioè semplice avverbio in -''o'' (cfr. ''aeterno'' avverbio in Ovidio, ''Am.'' III 3, 11). Manteniamo la lezione tradizionale in -''a'', perché ha il vantaggio (a parte il fatto che Dante altrove come forma avverbiale usa sempre ''in etterno'') di corrispondere all'uso dell'aggettivo ''etterne'' che viene immediatamente prima (''cose... etterne - io etterna''), e all'eguale uso dell'aggettivo predicativo, con lo stesso verbo «durare», di II 60: ''e durerà quanto 'l mondo lontana''.
 
 
{{quote|Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'.}}
*9.'''Lasciate ogne speranza''': questo ultimo verso - di andamento epigrafico, e non a caso divenuto proverbiale -è la conseguenza a livello umano e concreto (''voi ch'intrate'') delle solenni affermazioni precedenti. È l'unico infatti che si rivolge direttamente a chi legge, e direttamente lo colpisce. La perdita della speranza, la virtù teologale dell'attesa della visione di Dio, è per l'uomo il massimo dei mali. Tutta la terzina esprime in fondo una sola idea -la perennità senza scampo della pena- come la prima esprime l'intensità del dolore.<br/>
 
 
{{quote|Queste parole di colore oscuro}}
*10.'''di colore oscuro''': va inteso letteralmente: a caratteri scuri, neri, cioè determinazione di ''scritte'' e non di ''parole''. È questo del resto il colore dell'inferno (cfr. v.29), ed esprime di per sé angoscia e orrore. L'interpretazione metaforica («di significato doloroso, minaccioso») ci sembra da escludere, perché tale idea è espressa al v.12.
 
 
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{{quote|per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro»}}
*12.'''per... duro''': per cui io dissi: «Maestro il loro significato mi è penoso», (duro vale «gravoso», che incute sgomento; cfr. I 4). L'altra interpretazione («malagevole a intendere»), del Boccaccio e dell'Ottimo, non si accorda con la risposta di Virgilio, che non spiega il «senso» della scritta, del resto chiarissima, ma esorta a vincere il timore e lo sgomento.
 
 
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{{quote|«Qui si convien lasciare ogne sospetto;}}
*14.'''si convien''':è necessario; corrisponde al latino «opus est»; cfr. ''Aen.'' VI 261:«ora ci vuole ("opus") coraggio, Enea, e dura saldezza di petto». Si ripete qui di fatto la scena dell' ''Eneide'', dove la Sibilla esorta Enea al coraggio nello stesso momento dell'entrata nel mondo degli inferi.
*'''sospetto''': timore, che include esitazione, ''sospetto'' vale infatti in Dante «paura» (XXII 127), «esitazione» (''Purg.'' XXII 125) e anche «dubbio» (''Purg.'' VI 43).
 
 
{{quote|ogne viltà convien che qui sia morta.}}
*15.'''viltà''': pusillanimità (cfr. II 45 e nota); è appunto la causa del timore. Questo atteggiamento deve essere del tutto vinto da chi entra nell'inferno (''convien che qui sia morta''). Si rinnova qui in qualche modo la situazione del canto II, e si può dire che essa non è mai del tutto superata nell' ''Inferno'', ma resta quasi un motivo fisso nella cantica: viltà e timore da parte di Dante, conforto e sicurezza da parte di Virgilio. Tale diverso ruolo, che ben si giustifica sul piano teologico dell'allegoria, diventa il centro generatore del vincolo umano e affettivo che legherà i due personaggi.
 
 
{{quote|Noi siam venuti al loco ov'i' t'ho detto}}
*16.'''loco ov'i' t'ho detto''': cfr.I 114-7, dove si descrive appunto l'inferno.
 
 
{{quote|che tu vedrai le genti dolorose}}
*17.'''dolorose''': con valore soggettivo: che provano dolore. Riprende il tema della prima terzina.
 
 
{{quote|c'hanno perduto il ben de l'intelletto».}}
*18.'''il ben de l'intelletto''': la verità, cioè Dio, bene supremo dell'intelletto umano:«per l'abito de le quali [scienze] potemo la veritade speculare, che è ultima perfezione nostra, sì come dice il Filosofo nel sesto de l' ''Etica'', quando dice che'' 'l vero è lo bene de lo intelletto''» (''Conv.'' II, XIII 6). La visione di Dio è per Dante il fine e la beatitudine dell'uomo, dalla quale i dannati sono esclusi.
 
 
{{quote|E poi che la sua mano a la mia puose}}
*19.'''la sua mano… puose''': mi prese per mano; la dittongazione di ''ŏ'' ed ''ĕ'' toniche in sillaba aperta (''luogo, fiera'') è proprio del fiorentino antico, e si trova diffusamente nel poema, specie fuori di rima. L'antico dittongo, rimasto nella lingua italiana, in più voci (come ''puose, priego, spuola'' ecc.) è tuttavia scomparso.
 
 
{{quote|con lieto volto, ond'io mi confortai,}}
*20.'''con lieto volto''':«dal viso lieto del duca prende conforto e sicurtà chi segue» (Boccaccio). I gesti e il volto di Virgilio -a cui sempre è fisso lo sguardo di Dante- mutano e si conformano alle diverse situazioni, determinandone l'umana e concreta realtà.
 
 
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{{quote|Quivi sospiri, pianti a alti guai}}
*22.'''Quivi sospiri...''' (22-24): è la prima impressione all'affacciarsi nel'infernoInferno, tutta auditiva, perché per la grande oscurità (''l'aere sanza stelle'') la vista sembra ancora non distinguere niente. L'attacco è anche questa volta virgiliano:«Di lì s'odono lamenti e fischiare furiose percosse, e poi stridore di ferro e strisciare di catene» (''Aen.'' VI 557-8); ma il verso di Virgilio rappresenta l'orrore della scena, mentre quello dantesco è attento soprattutto all'umano dolore, che si riflette nell'animo del poeta (''ne lagrimai''). Il mondo degli inferi pagano ignora infatti il tema tragico del dolore proprio dell'inferno cristiano, dove l'uomo ha perso per sempre (''c'hanno perduto...'', v.18) la suprema felicità che gli era dato raggiungere, anche per una sola ''lagrimetta'' (''Purg.'' V 107), cioè l'unione con Dio. Bisogna sempre tener presente questa differenza fondamentale, nei continui raffronti tra ''Eneide'' e ''Inferno'': il motivo teologico, più che morale, del dolore per una perdita irrevocabile e infinita che caratterizza il testo dantesco; mentre il pur umanissimo Virgilio non può cogliere questa dimensione, che gli è ignota.
*'''guai''':''guaio'' vale «lamento acuto» (cfr.IV 9; V 3, 48), da cui il verbo«guaire»; è ritenuto sostantivo derivato dalla interiezione ''guai'' (cfr. v.84).
 
 
{{quote|risonavan per l'aere sanza stelle,}}
*23.'''sanza stelle''': così è la volta infernale, priva di ogni luce che sulla terra conforta gli uomini (cfr. ''Aen.'' III 204:«notti senza stelle»); e dalla luce sarà sempre definita la terra (cfr. VII 122; ''ne l'aere dolce che dal sol s'allegra''; X 69: ''non fiere li occhi suoi lo dolce lume?''; XVI 83: ''e tornai a riveder le belle stelle''; ecc.).
 
 
{{quote|per ch'io al cominciar ne lagrimai.}}
*24.'''ne lagrimai''': già è posto, fin dal principio, l'atteggiamento con cui Dante reagirà al dolore infernale: questo primo pianto è emblematico della ''pietate'' (II 5) che lo accompagnerà per tutta la cantica.
 
 
{{quote|Diverse lingue, orribili favelle,}}
*25.'''Diverse lingue...'''(25-30): le due terzine riprendono e dispiegano con maggiore ampiezza il motivo della precedente: i pianti si precisano in varie forme, con una progressione discendente (lingue-favelle-parole-accenti-voci), come sopra in progressione ascendente (sospiri-pianti-guai).
*'''Diverse''': differenti fra loro (''giacché tutti convegnon qui d'onge paese'', v.123). Preferiamo questa interpretazione, già molto diffusa fra gli antichi commentatori, all'altra:«strane», «disumane» (che si richiama a VI 13; VII 105; ecc.), perché la pluralità delle lingue per Dante è di per sé segno della decadenza dell'uomo dalla sua primitiva condizione, e anche perché l'altro concetto -dell'orrido e disumano- è espresso dalla copia seguente: ''orribili favelle''.
*'''favelle''': pronunzie; ''favella'' è il modo di pronunziare le parole, come a II 57.
 
 
{{quote|parole di dolore, accenti d'ira,}}
*26.'''accenti''': esclamazioni, mentre ''voci'' indica il semplice suono vocale; ''parole, accenti, voci'', sono quindi forme sempre più limitate di espressione, secondo la scala decrescente di cui sopra dicemmo.
 
 
{{quote|voci alte e fioche, e suon di man con elle}}
*27.'''suon di man''': battere di amni fra loro (o sui corpi dei dannati).
*'''con elle''':''ello,ella'' è comune nell'italiano antico nei casi obliqui (cfr.XXXII 124); si riferisce alle ''voci alte e fioche''.
 
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{{quote|sempre in quell'aura sanza tempo tinta,}}
*29.'''sanza tempo tinta''': eternamente oscura, senza l'alternarsi del giorno e della notte; ''tinta'' vale per «scura, nera» (cfr.XVI 104 e ''Purg.''XXXIII 74).
 
 
{{quote|come la rena quando turbo spira.}}
*30.'''turbo''': tutti gli antichi intendono ''turbo'' come un particolare tipo di vento; tra essi il Lana e Pietro citano Isidoro di Siviglia:«Il termine turbo viene dal termine terra, poiché il vento si alza e fa mulinare la terra» (''Etymol.''XIII, XI 19). E si veda anche il valore di ''turbo'' a XXVI 137. La similitudine, che è l'elemento inventivo dantesco sullo sfondo virgiliano dell'immagine, riassume con evidenza il confuso tumulto di quelle dolenti e indistinte voci, e la loro impotenza.
 
 
{{quote|E io ch'avea d'orror la testa cinta,}}
*31.'''orror''': il testo è modificato rispetto all'edizione del Petrocchi: il testo del Petrocchi (come già quello del Vandelli) ha ''error'' (nel senso di «dubbio»; cfr.X 114 e XXXIV 102) che si trova nei manoscrittti più autorevoli. Preferiamo la lezione ''orror'' (così anche Barbi, Sapegno e Mazzoni), prima di tutto per i precisi riscontri virgilini (''Aen.''II 559:«Allora un freddo orrore mi avvolse ["circumstetit horror"]» e VI 559), fondamentali in questo canto, anche perché nella scena di ''Aen.''VI il parallelismo continua nelle domande che seguono («Sgomento Enea si fermò per udire lo strepito: / Chi sono questi dannati? Vergine, parla. Quale / pena li afflige? Cos'è mai questo immenso gridare?», ''Aen.''VI 559-61); in secondo luogo perché a ''orror'' meglio che a dubbio si addice l'espressione contestuale: ''la testa conta'' (circondata, come in Virgilio «circumstetit»), se si pensa al tumulto di orribili suoni che s'aggira nei versi precedenti (cfr. anche Brugnoli in SD LIV, 1980, pp.15-30). Ma si vedano le ragioni del Petrocchi a ''Introd.'', p.168 e nel commento al verso.
 
 
{{quote|dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo?}}
*32.'''dissi:«Maestro...''': le domande ripetute seguono, come abbiamo visto, lo schema virgiliano, che offre la partitura drammatica (i movimenti, le scene principali, gli attacchi del dialogo) a questo primo ingresso nell'inferno. La cosa, tutt'altro che segno di incertezza e di inesperienza, è voluta da Dante, che in apertura della ''Commedia'' getta così un ponte tra sé e gli antichi, come esplecitamente farà nel IV canto, ponendosi ''sesto tra contato senno'' (IV 102) proprio perché consapevole che nuova e diversa è la consistenza morale del suo discorso egli può permettersi tali scoperte imitazioni, che per lui sono il mezzo per intonare la sua ''Commedia'' al livello che le compete, e stabilire un nesso tra i due poemi dell'umano destino.
 
 
{{quote|e che gent'è che par nel duol sì vinta?».}}
*33.'''vinta''': sopraffatta, abbattuta; usato anche altrove senza complemento d'agente (cfr.XXIII 60).
 
 
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{{quote|Mischiate sono a quel cattivo coro}}
*37. '''cattivo coro''': schiera, folla dei dannati
*37.
 
 
{{quote|de li angeli che non furon ribelli}}
*38. '''li angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro''': gli angeli che, nello scontro tra Satana e Dio, non stettero né dalla parte dei ribelli, né dalla parte di Dio, ma neutrali. Sono dunque anch'essi ignavi.
*38.
 
 
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{{quote|ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli».}}
*42. '''ch'alcuna...''': poiché i dannati (''rei'') trarrebbero della gloria dall'averli con sé. Gli ignavi non sono degni di essere accettati in nessuno dei tre regni dell'Aldilà.
*42.
 
 
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{{quote|Rispuose: «Dicerolti molto breve.}}
*45.
 
Riga 550:
*136.
 
[[Categoria: Divina Commedia|Inferno/Canto 03]]