Linguistica contestuale/Noam Chomsky: differenze tra le versioni

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Linguistica contestuale parte seconda

Noam Avram Chomsky porta i dati e le intuizioni di Sausurre a livelli decisa¬mente rivoluzionari. La linguistica, con lui, abbandona ogni finalità semplicemente classificatoria (linguistica tassonomica) per interessarsi soprattutto di ricostruire modelli ipotetici espliciti delle lingue, destinati a chiarire i dati linguistici osser¬vabili. Con lui ci si avvia verso una vera concezione teorica della linguistica, già abbozzata dagli strutturalisti.


Il linguista americano, che ricerca le forme della realtà profonda del linguaggio, reinterpreta la distinzione sausurriana di « langue » e « parole » nei termini di « competenza » (la conoscenza implicita, e non conscia, che il parlante ha della propria lingua) e di « esecuzione » (le frasi che il parlante produce realmente, nelle quali si manifesta la sua competenza), e si propone di definire la compe¬tenza linguistica, cioè, come egli scrive. « // sistema astratto di regole che sotto¬sta al comportamento verbale di ciascun parlante ». Chi parla una lingua può pro¬durre, e comprendere, un numero pressoché illimitato di frasi, la maggior parte delle quali non sono mai apparse prima, e, molto verosimilmente, non riappari¬ranno più.

Ogni parlante « reinventa » la lingua. Di questo aspetto creativo del linguaggio umano, fondamentale per Chomsky, non darebbe certo ragione una indagine che si rivolgesse all'esecuzione — cioè a un corpo di.testi necessariamente finito —, per estrarne, induttivamente, il sistema di regole che lo governano.

Del resto, come ricorda l'esperienza della scienza contemporanea, la raccolta, l'osservazione e la classificazione dei dati non ci garantiscono alcuna generalizza¬zione scientificamente valida, che possa cioè prevedere i nuovi fatti, oltre a fornire una descrizione plausibile di quelli già noti. La formulazione di una teoria scientifica comporta sempre un rischio. Essa viene costruita servendosi di un numero limi¬tato di esperienze, e quindi verificata nei fatti, che hanno la funzione di farla respin¬gere o accettare (« i dati dell'osservazione sono interessanti nella misura in cui hanno una incidenza sulla scelta fra due teorie rivali », scrive Chomsky). A questi principi s'attiene il linguista, allorché cerca di specificare le regole che governano la competenza lingusitica, elaborando alcuni modelli ipotetici (grammatiche), e confrontandoli quindi con i fatti linguistici reali, che decideranno quale sia il più adeguato.

A differenza degli strutturalisti europei, Chomsky non parte dalle unità minime della lingua, ma dalla frase. Il compito di uria grammatica risiede nella capacità di enumerare tutte le frasi incontestabilmente grammaticali della lingua data, esclu¬dendo, per converso, quelle pure incontestabilmente non grammaticali (V. Boarini -P. Benfiglieli, Avanguardia e restaurazione, Zanichelli, Bologna 1976, pagg. 666 segg.).

In questo modo il fatto centrale nello studio del fenomeno linguistico è la in¬nata capacità che ha ogni parlante di produrre e di comprendere un numero gran¬dissimo di frasi, anche se non le ha mai prima d'allora ascoltate né pronunciate. Questa capacità produttiva e decodificatoria nell'ambito linguistico, la chiama dunque « competenza (linguìstica) » (= conoscenza implicita che ogni parlante ha della propria lingua). Tale sistema mentale di regole e norme linguisticamente ope¬ranti è codificato nella « grammatica ». Chomsky tende a ridurre i modelli linguistici ad un insieme di regole meccanica¬mente applicabili sotto la forma di un algoritmo (procedimento sistematico che consente di pervenire al risultato desiderato con una bene determinata succes¬sione di operazioni eseguite secondo regole precise).

Abbandonando la pretesa di emettere giudizi inconfutabili sulle reali regole usate dal parlante nella produzione linguistica, la grammatica generativa cerca in sostanza di adeguarsi, cercando di definirne i meccanismi, alla realtà sottostante il comportamento effettivo dei parlanti. Così diventa una branca della psicologia.

Si cerca pertanto di ricostruire ipoteticamente e scientificamente la struttura di un meccanismo che ogni bambino ha riprodotto appropriandosi di un linguaggio in un determinato ambiente. Questo meccanismo deve essere molto sistematico e ben coordinato, operante secondo schemi omogenei, se è vero che bambini di 2-3 anni sono già in grado di appropriarsene. Insomma, una grammatica è un meccanismo capace, pur essen¬do finito, di generare un insieme infinito di frasi grammaticali. Il modello linguistico di base di cui Chomsky si serve per visualizzare i rapporti esistenti fra i costituenti (parole) della frase, è il « phrase marker » (indicatore della frase). Questo è anche definito « indicatore sintagmatico », in quanto scom¬pone la-frase in gruppi sintagmatici,- ossia in gruppi di parole che hanno un con¬tenuto unitario, e all'interno di ogni sintagma specifica le categorie (nome, articol et cetera) e le funzioni (soggetto, predicato etc.).

Il costituente più elevato è la frase.

Ad esempio:

l’uomo colpisce la palla

Una prima divisione comporta una prima distinzione fra due sintagmi. Il sintagma o gruppo nominale (GN] « l'uomo », forma¬to da articolo (o determinante) e nome, ed il sintagma o gruppo verbale « colpisce la palla ». Quest'ultimo può essere diviso ancora in altri costituenti: il verbo, « col¬pisce », ed il secondo gruppo (o « sintagma ») nominale (GN) « la palla ». I due GN possono essere scomposti neMoro costituenti ultimi (parole, « mor¬femi » o, per Martinet, monemi, ossia unità linguistiche minime dotate di signi¬ficato): l'uomo = GN (o SN) = Art (o Determ.) + N (sogg. = GN 1) la palla = GN - Art + N (compi, ogg. = GN 2) La « formula » della frase semplice è, quindi, la seguente: Fs = GN + GV. Mediante l'applicazione d'una serie di « regole di riscrittura » si giunge ai costi¬tuenti terminali: GN + GV Art + N + GV Art + N + Verbo + GN + N + Verbo + GN + uomo + Verbo + GN + uomo + colpisce + Art + N + uomo + colpisce + la + N + uomo + colpisce + la + palla (E. Cavallini Bernacchi, l'insegnamento della lingua, II Punto-emme edizioni, Mi¬lano 1975, pag. 84 e N. Chomsky, Le strutture della sintassi, U. Laterza, Bari 1974, pag. 36). (Nota: le « regole di riscrittura » hanno la forma generale X—>Y, da interpre¬tarsi come « si riscriva X come Y ». Per es. F—» SN + SV (Frase = Sintagma (o Gruppo) Nominale + Sintagma Verbale). Questo sistema permette — cosa che si nota facilmente — di visualizzare an¬che le differenze di struttura che possono generare ambiguità in frasi apparente¬mente simili. Esaminiamo la frase seguente:

1. una vecchia porta la sbarra

2. una vecchia porta la sbarra

L'ambiguità è generata dal modo in cui si intende il monema « porta »: Nome oppure Verbo. : Nel primo caso la stringa categoriale sarà A + N + V + A + N. Nel secondo sarà: A + Agg. + N + Pron. + V.

Ma esistono frasi che restano ambigue anche dopo un'analisi sintagmatica strut¬turale di questo tipo.

Per esempio, la frase « il maestro spaventa il bambino » è ambigua, perché può essere assunta sia nel senso che il maestro compie qualche azione che spaventa il bambino, sia nel senso che il bambino si spaventa alla sem¬plice vista del maestro.

Nei due casi è diversa la relazione tra « il maestro » e « spaventa ». La gramma¬tica sintagmatica non è in grado di distinguere strutturalmente le due interpreta-zioni.




La grammatica sintagmatica non sa render conto delle relazioni intuitive fra una frase attiva e la corrispondente negativa, interrogativa o passiva.



     IL TRASFORMAZIONALISMO 
Per questo motivo Chomsky introduce le regole « trasformazionali ». La sua grammatica è detta perciò « generativo-trasformaziona-le ». In questa grammatica, ad una prima analisi « sintagmatica », che visualizza le strutture profonde delle frasi, segue una seconda analisi che chiarifica le regole di trasformazione, determinando la struttura superficiale delle frasi, che coincide con la forma finale degli enunciati. 

Per esempio, alla struttura profonda «  io ordino a te tu vieni  » operano le trasformazioni che la mutano in:

  «   ti ordino di venire   » . 

La grammatica sintagmatica analizza solo la frase-base.

Costruito il primo indicatore sintagmatico, si può procedere all'applicazione di ogni possibile trasformazione: ti ordino di venire? Ti ordino di venire! Vieni! … te lo ordino Da parte mia ti si ordina di venire Io … ordinarti di venire !…

(interrogativa, esclamativa ed imperativa; negativa, passiva ed enfatica). 

La frase-base è « dichiarativa ».

Le posizioni della grammatica generativo trasformazionale, come osserva la Bernacchi, sono, implicamente, un'accusa continua ai fini ed ai metodi delle gram¬matiche tradizionali. Mentre quest'ultime (ch£ si identificano in genere con quelle scolastiche) si preoccupano di fornire al parlante un insieme di regole che rendano corretto ed ortodosso il suo uso linguistico, le grammatiche generative assumono che le regolarità della lingua siano già implicitamente possedute dal parlante, alla cui competenza, anzi, fanno continuo ricorso per valutare il loro grado di ade¬guatezza. Il fine di tali grammatiche, quindi, non è di fornire le regole della lingua, ma di scoprirle deducendole dagli usi linguistici concreti. Esse si propongono non di « in¬segnare la lingua », bensì di indagare sui processi mentali che regolano l'acquisizio¬ne e l'uso delle lingue, cioè di formulare un sistema di norme che permetta la for¬mazione di tutte le possibili frasi grammaticali ed escluda invece quelle non grammaticali. Non hanno dunque intenti didattici, ma scientifici. Loro scopo, come si è accen¬nato, è la costruzione di una teoria del linguaggio. Per questo, tali grammatiche rifiutano ogni atteggiamento di infallibilità e di incontestabilità, prerogativa delle grammatiche tradizionali. In questo senso, pur senza assumere fini didattici, le grammatiche generative contengono fondamentali fermenti didattici. Le « regole » grammaticali si rivelano inutili in un doppio senso: da un lato perché l'insegnante dovrebbe abituarsi a non spiegare ai propri alunni i fenomeni della lingua, ma a cercarne invece insieme a loro diverse possibili spie¬gazioni; dall'altro perché ciascuno impara a parlare correttamente da" sé, purché venga esposto all'emissione di enunciati corretti, e purché non gli sì crei la paura di sbagliare. In questo senso uno dei fondamentali compiti dell'insegnante riguardo all'ap¬prendimento linguistico resta quello di riprodurre e di incrementare la situazione naturale di conversazione, di scambio verbale spontaneo attraverso cui ogni bambino, senza che gli vengano insegnate regole, impara a parlare. Sì tratterà poi, in diversi gradi a seconda del livello scolastico o delle fasce di livello all'interno di una classe medesima, di prendere spunto da questi atti di co¬ municazione per avviare riflessioni sistematiche sulle caratteristiche dell'uso lin¬ guistico, così da rendere ciascuno il più possibile consapevole delle caratteri¬ stiche, della natura e delle possibilità dello strumento linguistico (E.C. Bernacchi, pagg. 90-91).


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: DANTE PRECURSORE DELLA MODERNA LINGUISTICA

Intuizioni dantesche di chiarissima.attualità sono la considerazione del linguaggio come «forma» e del « segno » come « libero »; il riconoscimento del divenire delle .lingue e della sto¬ricità del fatto linguistico; il rilievo del fattore sociale nel processo evolutivo dei linguaggi; la nozione di « lingua » come comunione linguistica nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; la nozione di lingua comune come ten¬denza cosciente all'unificazione, che si attua attraverso il magistero dell'arte e il prestigio e l'azione del potere politico.

Sarà bene analizzare brevemente solo alcuni di questi punti, mirabilmente illu-strdu ud Antonino Pagliaro (A. Pagliaro, Nuovi Saggi di Critica Semantica, la dot¬trina linguistica dì Dante, Editore G. D'Anna, Messina-Firenze 1963, pagg. 215 segg.).

Il linguaggio è, per Dante, facoltà propria ed esclusiva dell'uomo di esprimere con parole gli intellectus o conceptiones della mente. La parola è per lui il « segno fonico », come noi l'intendiamo, « rationale et sen¬suale » (De Vulgari Eloquentia, I, III, 2); ha, cioè, una realtà sensibile, in quanto il suono è oggetto di sensazione, ed una realtà spirituale, in quanto il complesso fonico ha un significato che ad esso inerisce non per necessità naturale, ma perche gli uomini ve lo attribuiscono: « nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare idetuz ad placitum » (De V.E. I, III, 3) (ed appunto questo segno è quel subietto nobile di cui parlo): infatti è alcun¬ché di sensibile, in quanto è suono; e di razionale, in quanto appar significare alcuna cosa a piacimento) (Dante Alighieri, Tutte le opere, a C.L. Blasucci, ed., Firenze 1965, pag. 205 b).

" Fu necessario, dunque, che il genere umano per comunicare fra sé le proprie idee disponesse di qualche segno sensibile e razionale; che esso, dovendo da ra¬gione ricevere ed a ragione portare, fu necessariamente razionale; e non potendosi d'altra parte riferire da una ragione all'altra se non per mezzo sensibile, fu neces¬sariamente sensibile. Pertanto, se fosse soltanto razionale, non potrebbe passare dall'uno all'altro; se fosse soltanto sensibile, non potrebbe da ragione ricevere ed a ragione portare » (De V.E. I, III, 2).

Sono da rilevare due punti essenziali in questa concezione. Prima di tutto il riconoscimento (cinque secoli prima di Sausurre) dell'arbitrarietà del segno lin¬guistico, e più precisamente della libertà della parola come complesso di segni va¬riamente organizzati. Tale arbitrarietà (« aliqujs significare ad placitum ») è lega¬ta da Dante con la libertà inerente allo spirito [ratio], mentre gli animali che ob¬bediscono all'istinto sono legati nel comunicare a certi atti o manifestazioni emo¬tive (« per proprios actus vel passiones » — per mezzo dei suoi propri atti o pas¬sioni — De V.E,, I, III, 1). La facoltà di connettere suono e significato è data all'uomo da natura, ma l'at¬tuazione, la modalità di tale connessione è ad arbitrio degli uomini, cioè della li¬bertà che è inerente alla loro « ratio »:

« Opera naturale è ch'uom favella; ma, così o così, natura lascia poi fare a voi, secondo che v'abbella » (Paradiso XXVI, 130-132).


A questa comune capacità fonico semantica, corrisponde nei fatti una grande varietà di lingue diverse. Per spiegare la formazione di comunità linguistiche distinte, Dante ricorre alla tradizione biblica della confusione babelica, interpretandola in forma nuova e ori¬ginale. Gli uomini che erano intenti aMa costruzione della torre, per la necessità del loro lavoro, crearono tante lingue speciali in conformità alle singole attività comuni. « Solo quelli, infatti, che si accomunavano in una data operazione vennero ad avere una lingua medésima: una, per esempio, tutti gli architetti, una quanti rotolavano i sassi, una quanti li preparavano e così avvenne di tutti gli operai. E quente erano le forme di attività impegnate nella costruzione, in tanti idiomi allora si divide il genere umano » (De V.E. I, VII, 7). Dante individua nel bisogno di comu¬nicazione, inerente al comune lavoro, la creazione di singole lingue speciali.

47 Pur senza staccarsi dalla base culturale tradizionale, costituita dalla Bibbia, egli aggiunge una nota nuova al mito ebraico, anticipando la moderna teoria « si-nergastica »'(greco: siunergàzomai = lavoro insieme) dell'origine delle lingue.

Sulle lingue europee, Dante pone quello che chiama « idioma tripharium » come lingua che ha dato origine alle tre lingue romanze a lui note: francese, provenzale ed italiano. Non dice, però, esplicitamente cosa sarà stato questo linguaggio che è alla base delle tre lingue neolatine. Non lo identifica, comunque, con il latino della tradizione colta.

Lo sviluppo del suo argomentare porta necessariamente alla nozione di una lingua parlata, di cui il latino letterario, il latino dell'uso colto medioevale, sarebbe stato la forma grammaticale. E nello stesso modo in cui ha intuito l'unità sostanziale dell'idioma tripharium, di cui la « lingua del sì », la « lingua d'oil » e la « lingua d'oc » sono manifestazioni diverse, Dante intuisce anche la fondamentale unità della « lingua del sì » alla base delle varietà dialettali. In tal modo, quindi, giunge alla determinazione della comu¬nione linguistica, che è alla base di un dominio dialettalmente differenziato, ossia della « lingua » nel senso « storico » della parola.

« In quanto agiamo come Italiani, abbiamo alcuni segni essenziali e di costumi e di atteggiamenti e di idioma, rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni italiane. E appunto questi, che sono i segni più perfetti di quelle che sono le azioni proprie degli italiani, non sono specifici di nessuna città d'Italia e in tutte sono comuni; fra essi ora si può discernere quel volgare di cui sopra andavamo in cerca, del quale ogni città vi è sentore e che in nessuna ha sede » (De V.E. I, XVI, 3-4). È da rilevare che Dante pone la lingua sullo stesso piano dei costumi e degli istituti, in cui si determina la fisionomia storica di una comunità. Noi oggi sappiamo, e Dante lo aveva"!ntuito, che l'affermarsi di una lingua co¬mune su un dominio dialettalmente differenziato è dovuto a circostanze varie, poli¬tiche e culturali, che danno la prevalenza alla parlata di una regione, di una città o addirittura di un ceto. Così è avvenuto per la Koinè greca, affermatasi per il pre¬stigio politico e culturale di Atene; così è avvenuto per l'italiano, per il francese, per il tedesco.

Ma Dante non ci trovava, come ci troviamo noi, ora, di fronte al fatto compiuto, e con le sue intuizioni anticipava l'avvenire, riuscendo a prevedere lo sviluppo probabile di certe potenzialità linguistiche. Se l'italianità linguistica ha la sua essenza in alcuni caratteri fondamentali. •• primissima signa », il volgare illustre, cioè la lingua comune, non può aversi se non attraverso lo scoprimento di questi caratteri e l'adeguamento ad essi di ogni atteggiamento del parlante, escludendo il difforme ed il deviato dall'uso corretto della lingua.

Appare chiaro come Dante veda nell'unificazione linguistica un'opera di crea¬zione nazionale e popolare collettiva, ed un'opera di ricerca cosciente e paziente da parte di una minoranza di intellettuali che. avvalendosi dell'Arte, di un gusto gentile e raffinato e dell'appoggio d'un opportuno ambiente politico, dia uniformità ed ampiezza all'uso linguistico, mantenendolo, tuttavia, fedele ai suoi fondamentali contrassegni genetici. Concludendo, gli elementi nuovi apportati dal trattato dantesco nei confronti della speculazione linguistica antica e anticipatori delle moderne dottrine lingui¬stiche si possono così riassumere: considerazioni del linguaggio come « forma » (ossia costituzione del vocabolo nel suo rapporto necessario fra suono e significato e modo di organizzare i vocaboli nella frase: delimitazione di Piano Paradigmatico e Piano Sintagmatico) e del « segno » come « libero » (arbitrarietà del linguaggio, per Sausurre); riconoscimento del divenire delle lingue e della storicità del fatto -linguistico; rilievo del fattore sociale e politico; nozione di « lingua » come « co¬munione linguistica » nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; nozione di lingua come tendenza cosciente all'unificazione, che si attua attraverso il magistero dell'Arte e il prestigio e l'azione del potere politico.

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