Storia della letteratura italiana/Cesare Beccaria: differenze tra le versioni

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Partendo dalla teoria contrattualistica, che sostanzialmente fonda la società su un contratto teso a salvaguardare i diritti degli individui, garantendo l'ordine, Beccaria definì il delitto come una violazione del contratto. La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un altro.
 
Beccaria sosteneva quindi l'abolizione della [[pena di morte]], che non impedisce i crimini e non è efficace come deterrente; si occupò della prevenzione dei delitti, favorita a suo avviso dalla certezza piuttosto che dalla severità della pena (principio elaborato per la prima volta dall'inglese [[w:Robert Peel]]). Beccaria sosteneva che per un qualunque criminale, una vita da trascorrere in carcere con l'ergastolo privativo della libertà, è peggiore di una condanna a morte, mentre l'esecuzione non vale come monito e deterrente al crimine in quanto le persone tendono a dimenticare e rimuovere completamente un fatto traumatico e pieno di sangue, anche perché nella memoria collettiva l'esecuzione non è collegata ad un ricordo di colpevolezza (non essendo stato seguito il processo).
 
Anche [[w:Ugo Foscolo]] rileverà nelle "Ultime Lettere di Jacopo Ortis" che "''le pene crescono coi supplizi''".
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Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra nella seguente frase: "''Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa''".
 
'''''Dei delitti e delle pene''''' è un saggio scritto dall'[[illuminismo|illuminista]] [[Milano|milanese]] [[Cesare Beccaria]] tra il [[1763]] ed il [[1764]].
== Voci correlate ==
 
* [[w:Dei delitti e delle pene]]
[[Immagine:Dei deleti e delle pene 1764.jpg|thumb|Frontespizio della prima edizione dell'opera]]
 
In questo breve trattato [[Cesare Beccaria|Beccaria]] si pone con spirito illuminista delle domande circa le pene allora in uso. Nel [[1766]] il libro viene incluso nell'[[Index Librorum Prohibitorum|indice dei libri proibiti]] a causa della sua distinzione tra [[reato]] e [[w:peccato]]. Il milanese affermava che il reato è un danno alla società, a differenza del peccato, che non essendolo, può essere giudicabile e condannabile solo da [[Dio]]. L'ambito in cui il diritto può intervenire legittimamente non attiene dunque alla coscienza morale del singolo. Per Beccaria, inoltre non è «l'intensione», ma «l'estensione» della pena ad esercitare un ruolo preventivo dei reati.
 
L'inglese [[w:Robert Peel]] affermò che la certezza della pena è un valore altrettanto fondamentale, e prevalente sulla gravità della punizione.
 
Il risultato dei suoi ragionamenti mostra l'inutilità delle pene che venivano usate rispetto allo scopo perseguito: una pena di grande intensità può essere presto dimenticabile ed il delinquente può essere in grado di godere dei frutti del suo misfatto. Al contrario, una pena duratura impedirebbe a chi compie un crimine di godere dei frutti del suo reato e nonostante non sia intensa viene più facilmente ricordata. Beccaria propone quindi la detenzione in carcere per i colpevoli.
 
Tra le tesi che egli avanza contro la [[w:pena capitale]] vi è il fatto che lo [[Stato]], per punire un delitto, ne compierebbe uno a sua volta. Ed il diritto di questo Stato, che altro non è che la somma dei diritti dei cittadini, non può avere tale potere. Infatti nessuna persona - dice Beccaria - darebbe il permesso ad altri di ucciderla.
 
La [[w:pena di morte]] diviene quindi uno ''spettacolo'' per alcuni, ed un motivo di ''compassione e sdegno'' per altri, che vedono l'inadeguatezza della pena.
 
La diffusione della religione tra gli strati più bassi della popolazione, faceva sì che i più miseri non temessero questa pena se avessero avuto la possibilità di risultare utili alla loro famiglia grazie al reato.
 
Da "Della pena di morte": ''Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l'orrore di quell'ultima tragedia''.
 
Il fine delle pene non deve quindi essere afflittivo o vendicativo ma rieducativo, in perfetto spirito illuminista.
 
L'opera incontrò un notevole successo ed ebbe vasta eco in tutt'[[Europa]]. Fu apprezzata nella [[w:Milano]] illuminista, fu vista come il prodotto dell'attività innovatrice in [[Francia]], e messa subito in pratica dalla zarina [[w:Caterina II di Russia]].
 
Alcuni studiosi ritengono, con buone ragioni, che l'opera sia stata scritta da [[w:Pietro Verri]] e pubblicata anonima a Livorno (per paura di attirare sull'autore i fulmini del governo austriaco). Beccaria accettò di prestare (insieme a una piccola collaborazione) il suo nome al libro di Verri, il quale poi, di fronte al successo dell'opera, si pentì della scelta. Ma a quel punto lo stesso Beccaria si trovò in una situazione imbarazzante e decise di mantenere la "firma" all'opera. Se si legge con attenzione [[w:La storia della colonna infame]] di [[w:Alessandro Manzoni]] (nipote di Beccaria), si troveranno tra le righe, velate indicazioni sulle "cautele" di Verri.
 
Sull'onda del successo di questa proposta di riforma giudiziaria, la [[pena di morte]] fu abolita per la prima volta nel [[w:Granducato di Toscana]].
 
Di questo trattato [[w:Voltaire]] ne farà un commento.<ref>''Commentaire sur le traité des délits et des peines'', 1766</ref>