Divina Commedia/Inferno/Canto II: differenze tra le versioni

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{{quote|e cominciommi a dir soave e piana,}}
*56.'''soave e piana''':tutti gli antichi riferiscono questi aggettivi al parlare della scienza divina, cioè al valore simbolico di Beatrice:"poiché il parlare divino è soave e semplice ('suavis et planus')" (Benvenuto); e ''piano'' è preso nel senso di "chiaro" e "aperto". Questa dittologia, con leggere variazioni, è peraltro ritrovabile nelle rime di Dante e degli stilnovisti (cfr. Dante, ''Rime'' LXIX 10:"co gli atti suoi quella benigna e piana"; Lapo Gianni, ''Rime'' XII 23:"ma fie negli occhi suoi umil'e piana"; ecc.), dove il ''piana'' vuol dire "dolce", "benevola", e in questo senso è inteso da tutti i moderni. Tuttavia, come Beatrice è sì quell di prima, ma insieme figura di una realtà che la trascende, così anche il suo parlare è sì sempre quello, ma può ben darsi che quel modo dolce e semplice si sollevi ad indicare il parlare proprio di Dio, che non è quello orgoglioso e difficile dell'uomo.
*56.'''soave e piana''':
 
 
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{{quote|"O anima cortese mantoana,}}
*58.'''"O anima cortese...''':il discorso comincia secondo lo schema retorico classico, con la "captatio benevolentiae", cioè con le lodi all'interlocutore per ottenerne il consenso. Tuttavia questo "topos" viene qui ad assumere un particolare valore di gratuita gentilezza, verso chi si trova in posizione tanto inferiore, in quanto a Beatrice non era in alcun modo necessario conquistarsi l'accondiscenza di Virgilio (cfr. 54). Si osservi il dolce andamento musicale del verso, che dà il tono a tutto il parlare di Beatrice.
*58.'''"O anima cortese...''':
 
 
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{{quote|e durerà quanto 'l mondo lontana,}}
*60.'''quanto 'l mondo lontana''':durerà lontana nel tempo (''lontana'' è predicativo) quanto durerà il mondo (cfr. ''Aen''. I 607-9:«...Finché al mare scorreranno i fiumi, finché le ombre copriranno il dorso dei monti, finché il cielo avrà stelle, il tuo nome, le tue lodi, i tuoi pregi in me resteranno»).
*60.'''quanto 'l mondo lontana''':
 
 
{{quote|l'amico mio, e non de la ventura,}}
*61.'''l'amico mio, e non de la ventura''':amico vero, e non quelli che mutano secondo la fortuna, e quindi amano questa, più che l'amico. È il tema dell'amore disinteressato, centrale nella ''Vita Nuova'', e che ha vasti riscontri sia tra gli antichi (cfr. soprattutto il ''De amicitia'' di Cicerone) sia tra gli autori medievali (Abelardo). Per un riscontro puntuale con testi ben noti a Dante, si veda Ovidio, ''Tristia'' I 5, 33-4:«Siete appena 2 o 3 voi che mi restate amici: gli altri erano compagni della buona sorte ("Fortunae"), non miei», e Brunetto Latini, nel ''Favolello'' 72-3:«ch' ''amico di ventura'' / come rota si gira». Questa interpretazione, già proposta da Benvenuto, è più convinciente dell'altra tradizionale, che intende ''mio e della ventura'' come genitivi soggettivi (amato da me, e non dalla fortuna che lo perseguita), sia per i richiami evidenti ai testi citati, sia soprattutto per il senso corrispondente alla situazione di Dante, che si salva proprio per quell'amore (cfr. v.104), e che in tutta la scena si appella alla ''Vita Nuova'', mentre non si trova in tale stato per colpa della fortuna, ma del proprio errore.
*61.'''l'amico mio, e non de la ventura''':