Impresa sociale di comunità/Governance: differenze tra le versioni

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L’intuizione di fondo è che alla base della creazione di organizzazioni di tipo reticolare vi debba essere un interesse o un ''obiettivo comune'', nel nostro caso di tipo sociale, che vada al di là dei singoli interessi dei diversi stakeholder e di una loro pur virtuosa ricomposizione nella governance organizzativa. La presenza di un esplicito obiettivo sociale è già contenuta nella legislazione sulla cooperazione sociale. Tuttavia, nel caso dell’impresa reticolare, la socialità o la rilevanza pubblica non sono componenti necessarie come nel caso delle cooperative sociali. La costituzione di una impresa reticolare va invece intesa come creazione di un bene comune, cioè rivale, ad esempio in termini di investimenti materiali, ma non escludibile, in quanto i benefici derivanti dall’organizzazione devono ricadere su tutti i soggetti coinvolti, in modo diretto o indiretto. La partecipazione dei diversi attori diventa funzionale al perseguimento dell’obiettivo comune e non viceversa; vale a dire che l’impresa non è più al servizio di interessi specifici o di una loro combinazione nella forma di organizzazione multi-stakeholder. L’azione imprenditoriale diventa anch’essa parte del bene comune, ed è quindi una caratteristica della rete e non dei singoli attori che la compongono. Non si tratta di concetti nuovi, ma la loro ricombinazione in termini di organizzazione reticolare può chiarire diversi aspetti che scavalcano l’elaborazione tradizionale concernente organizzazioni non-profit e cooperative sociali. <br/>
Sul piano istituzionale, un primo passo nella direzione della trasposizione del concetto di rete a livello di governance consiste nel riconoscere la necessità di una maggiore formalizzazione delle regole del governo organizzativo. La stretta interrelazione dei rapporti che si sviluppano all’interno dell’organizzazione e la necessità di definire obiettivi comuni richiede la definizione ex-ante degli aspetti portanti della struttura di governo. Queste necessità non si presentano però allo stesso modo nelle reti formate da organizzazioni diverse. Tuttavia, la formalizzazione dei rapporti all’interno dell’organizzazione va correttamente interpretata alla luce dell’idea di un network basato sulla mutua dipendenza e non sulla direzione gerarchica. Il caso della cooperativa CEFF di Faenza riportato in questo paragrafo rappresenta, in tal senso, un esempio rilevante di “buona pratica”.
 
{{Buone_pratiche|1='''''Il sistema CEFF''''' <br/>
Il sistema CEFF (Cooperativa Educativa Famiglie Faentine) è composto da due organizzazioni, entrambe cooperative sociali, operanti nel comune di Faenza. La prima organizzazione, la CEFF Francesco Bandini, fu creata nel 1977 inizialmente come cooperativa il cui scopo era quello di organizzare case-vacanze per le famiglie meno abbienti del comune di Feanza. A partire dall’inizio degli anni ’80 la CEFF si riconvertì in cooperativa di solidarietà sociale con lo scopo di assistere e reintegrare sul mercato del lavoro soggetti deboli, in prevalenza portatori di handicap. Il lungo percorso di evoluzione di questa funzione organizzativa fu coronato nel 1998 con la nascita della CEFF Servizi, una cooperativa di tipo B che impiega direttamente e reintegra sul mercato del lavoro alcune decine di soggetti svantaggiati, in prevalenza portatori di handicap, ma anche ex-tossicodipendenti. Oggi il sistema CEFF conta 122 soci ordinari, 32 soci volontari, 24 dipendenti, 40 dipendenti svantaggiati (tra attivi ed ex-dipendenti reintegrati sul mercato del lavoro) e 32 utenti per un totale di 250 soggetti coinvolti. La CEFF Bandini ha fatturato nel 2004 1,071 milioni di euro, corrispondenti ad un valore aggiunto netto di 587.000 euro. La CEFF servizi ha fatturato nello stesso anno 966.000 euro corrispondenti ad un valore aggiunto netto di 497.000 euro.
 
'''''Governance multi-stakeholder e apertura al territorio''''' <br/>
Il carattere multi-stakeholder dell’organizzazione ha permesso di anteporre la mission sociale della cooperativa ad ogni altro obiettivo, anche attraverso il controllo da parte di soci volontari e la partecipazione attiva a livello gestionale di alcuni fra i principali attori territoriali come i servizi sociali del comune di Faenza, i centri per l’impiego e l’inserimento lavorativo, ovvero le associazioni di rappresentanza che vanno da quella degli industriali faentini a quella dei genitori dei soggetti svantaggiati. La creazione di una rete di relazioni, sia formali che informali, sul territorio faentino è stata la conseguenza del prevalere della mission sociale e di una struttura di governo plurale. Molti degli attori della rete nella quale è inserito il sistema CEFF sono presenti anche nella sua struttura di governo. La rete è quindi il risultato più visibile della crescita organica dell’organizzazione e si sviluppa in modo funzionale ad essa. La governance multi-stakeholder ed il controllo dei soci volontari hanno permesso di mantenere aperta la struttura dell’organizzazione rispetto a molte istanze innovative ed alla costituzione dei legami necessari al perseguimento della mission. Non sono stati rilevati elementi significativi che indichino il prevalere di logiche particolaristiche e di interessi di specifiche categorie di soggetti interni ovvero esterni all’organizzazione. Il sistema CEFF si caratterizza come bene comune dell’intera comunità faentina e la sua struttura di governo rispecchia appieno il suo carattere comunitario. In sintesi, ''è la stessa struttura di governo plurale, orientata alla mission, che ha fortemente favorito lo sviluppo dell’organizzazione reticolare'' secondo un modello particolarmente confacente alle caratteristiche delle ISC.}}
 
 
=== Le diverse modalità di partecipazione e gli strumenti di governo===
L’implicazione più forte è che ''ciascun attore coinvolto nel governo reticolare deve avere la possibilità di esprimere correttamente le proprie prerogative'', siano esse di controllo dell’organizzazione o legate a forme partecipative più tenui, quali i processi informativi e/o consultivi. Tali processi, anche quando rappresentano forme di coinvolgimento circoscritte a specifici aspetti, devono potersi svolgere in libertà senza interferenze da parte degli stakeholder che occupano un posto preminente nell’organizzazione. È chiaro dunque che, anche in questo caso, lo statuto ed i regolamenti organizzativi assumono un ruolo centrale dal momento che è proprio in tali documenti che vanno definite le prerogative di ciascun gruppo di soggetti. In tali sedi è necessario calibrare le modalità e l’ambito del coinvolgimento lavorando sul difficile equilibrio che può instaurarsi tra i diversi obiettivi. Infatti, se da un lato provvedimenti carenti in termini partecipativi rischiano di esacerbare i problemi derivanti dall’eterogeneità degli interessi e dalle asimmetrie informative, di danneggiare le relazioni fiduciarie e di creare situazioni di dipendenza gerarchica di fatto, se non formali; dall’altro lato un “eccesso” di partecipazione può creare problemi di genere opposto, quali l’incapacità dell’organizzazione di raggiungere decisioni adeguate in tempi ragionevoli, e possibili impasse organizzative dovute, per esempio, a veti incrociati rispetto a quali siano le priorità da privilegiare. La ricerca di un equilibrio adeguato tra la sovra e la sotto-determinazione delle forme partecipative è essa stessa un processo che va sempre interpretato nel suo divenire e mai come risultato acquisito una volta per tutte. Nell’impossibilità di stabilire ex-ante una schema applicabile a tutte le ISC, è l’esperienza professionale e sul campo che deve guidare il processo di elaborazione da parte di chi crea ed è addetto alla ridefinizione della struttura organizzativa.
 
{{Approfondimento|1='''''La rilevanza delle regole statutarie''''' <br/>
Questi rilievi distinguono chiaramente le ''regole statutarie'' da quelle ''legislative''. Mentre le prime caratterizzano una specifica organizzazione e la rendono potenzialmente diversa da tutte le altre al livello del governo organizzativo, le seconde hanno l’obiettivo di fissare i principi generali validi allo stesso modo per tutte le organizzazioni. L’approccio qui seguito individua proprio nella differenziazione tra gli statuti delle singole ISC una inesauribile fonte di varietà ed uno dei principali motori dell’evoluzione della loro struttura organizzativa. Peraltro, questo tipo di approccio può dare i suoi frutti migliori proprio riguardo alla governance di organizzazioni reticolari come le ISC, dove i rapporti tra gli attori coinvolti non sono dati a priori e predefiniti in modo rigido dalle norme legali, e dove quindi c’è più spazio per una ricombinazione quasi “artigianale” delle posizioni reciproche e delle procedure che le connettono. In queste condizioni, da un lato non è possibile predefinire una rigida struttura organizzativa e dall’altro una parte centrale dei rapporti intra-organizzativi dipende dal radicamento locale dell’organizzazione, dai rapporti fiduciari tra stakeholder e dai processi di coinvolgimenti dei vari attori. Una implicazione forte derivante da questo schema è che al management deve essere garantita la massima indipendenza in quanto esso non deve rispondere a nessuno degli interessi specifici anche nel caso in cui il governo dell’organizzazione sia dominato da uno o pochi stakeholder. Ciò è vero in quanto l’organizzazione non è stata concepita per tutelare tali interessi, anche quando vi sia un solo stakeholder, ma per rispondere ai bisogni comuni, sociali o collettivi.}}
 
Si giunge così ad una prospettiva opposta rispetto al governo mono-stakeholder in quanto la governance di ciascuna organizzazione reticolare va studiata e ridefinita di volta in volta allo scopo di adattare nel miglior modo possibile la posizione di ciascun gruppo di attori rispetto a quella degli altri gruppi. Il maggiore problema messo in luce a tale riguardo da alcuni influenti studiosi, come Henry Hansmann, e cioè i costi eccessivamente elevati legati ai processi decisionali nelle organizzazioni non controllate dagli investitori – e quindi anche nelle organizzazioni multi-stakeholder – ha una sua indubbia rilevanza in quanto il livello dei costi rappresenta una variabile di controllo fondamentale anche per le imprese sociali di comunità. Tale prospettiva, tuttavia, adombra quasi del tutto le potenzialità delle soluzioni di governo, tra cui quelle multi-stakeholder e reticolare, che coinvolgono anche attori diversi dagli investitori, in quanto tali soluzioni possono contribuire al rafforzamento delle reti fiduciarie all’interno e all’esterno dell’organizzazione in termini di accumulazione di capitale sociale, di distribuzione di risorse a fasce sociali svantaggiate (ad esempio attraverso meccanismi di discriminazione di prezzo), e di accumulazione di conoscenza specifica nella produzione e somministrazione di servizi a carattere collettivo.
 
{{Buone_pratiche|1='''''L’evoluzione verso un modello complesso''''' <br/>
Nel contesto del sistema CEFF le forme partecipative per i molti attori coinvolti sono state introdotte gradualmente per ciascuno di loro a partire dal nucleo originario rappresentato da un gruppo di volontari ed attivisti sociali che fondarono l’impresa a metà degli anni ’70. L’aumento del contenuto partecipativo non sembra aver mai messo a repentaglio la capacità dell’impresa di prendere decisioni efficaci in relazione ai propri obiettivi tanto strategici quanto operativi. Al contrario, la partecipazione di attori diversi sembra aver aiutato questa organizzazione a perseguire tali obiettivi. Ad esempio la rappresentanza formale dei lavoratori della cooperativa nel Consiglio di Amministrazione è stata introdotta solo a partire dal 2005. Tale scelta ritardata derivava dal fatto che ai lavoratori veniva riconosciuto il salario reale, e non il salario medio convenzionale, il quale implica il versamento di contributi pensionistici più bassi, con relativa decurtazione della pensione attesa. L’applicazione del salario reale permette ai lavoratori di andare in pensione con contributi regolari, ed in futuro di ricevere una pensione equa, ma li rende allo stesso tempo incompatibili con lo status di socio. Con l’ultima riforma del diritto societario si è potuto rimediare a questa limitazione ed i lavoratori sono stati accolti nella base sociale pur mantenendo il salario reale. L’entrata nella base sociale dei soci lavoratori, tra i quali anche molti dei lavoratori svantaggiati, pone nuove sfide e nuove incognite. Da un canto il maggiore coinvolgimento può consentire, almeno in potenza, una partecipazione più attiva all’interno dell’organizzazione, con effetti benefici soprattutto a livello di flussi informativi e di capacità propositiva proveniente dal basso. Tuttavia, il cambiamento implica notevoli rischi per i delicati equilibri della governance, che è sempre stata basata su una focalizzazione quasi esclusiva sulla mission, indipendentemente dalle possibili pressioni dei gruppi di interesse interni all’organizzazione, quale potrebbe essere appunto l’insieme dei lavoratori remunerati. Tuttavia, tali interessi sono talmente connaturati all’organizzazione della produzione, che la loro presenza nella base sociale non sembra poter modificare lo status quo, se non in meglio attraverso la maggiore partecipazione quando questa sia coniugata con l’autonomia della funzione manageriale nel perseguire gli obiettivi organizzativi.}}