Identità e letteratura nell'ebraismo del XX secolo/Esiste una letteratura ebraica francese?
Sia in termini contemporanei che in quelli storici, l'ebraismo francese è di importanza speciale per due ragioni. Al momento, gli ebrei francesi sono di gran lunga la comunità più numerosa dell'Europa occidentale, e quindi numericamente la quarta nel mondo. Ma oltre a ciò, è il contesto in cui la teoria dell'emancipazione politica e sociale è stata messa alla prova più tenacemente. Fu in Francia dopo la Rivoluzione che la dichiarazione dei "diritti dell'uomo" fu promulgata, e che l'uguaglianza fu proclamata per tutti, a prescindere da razza, religione e condizione, rispetto a tali diritti. Gli ebrei di Francia furono quindi invitati ad assimilarsi come pari partecipanti alla civiltà francese che, inutile dirlo, era considerata (specialmente dai francesi stessi) la più avanzata dell'epoca. La domanda implicita poteva essere resa esplicita: potevano gli ebrei sopravvivere e sopravvivere creativamente in condizioni di integrazione positiva in un'attraente cultura ospitante?[1]
Esamindandola però tale domanda risulta più complessa di quanto non lo sia la semplice formulazione. Una proposizione teorica non implica necessariamente la sua attuazione. La connessione sillogistica di uguaglianza per gli ebrei come persone non obbliga ad un trattamento uguale ed un'integrazione perfetta, incontaminata. E la reazione ebraica può essere sia, da una parte, difensivamente negativa, cercando un assorbimento e ritirandosi in una fortezza ebraica solo quando necessario, sia, dall'altra, apertamente positiva, abbracciando un'asserzione ebraica. Nel caso della prima reazione, l'assimilazione culturale e quella sociale sembrarono procedere di pari passo dopo la Rivoluzione per circa cento anni, sulla base di un presupposto egalitario. Ciò non significa che gli ebrei francesi ipotizzassero la propria scomparsa o quella dell'Ebraismo mondiale. Ma potevano operare con fiducia nell'ambito del contesto francese e assumere la situazione locale come modello per il resto. Fu in Francia che la prima organizzazione ebraica internazionale fu fondata, la "Alliance Israelite Universelle" del 1860. Questa fu e rimane uno strumento assistenziale, sociale ed educativo di grandi dimensioni, fondato da una ben consolidata comunità francese per soccorrere e sostenere gli ebrei ovunque si trovino. Quindi il concetto dell'Ebraismo mondiale si originò qui in termini organizzativi concreti, e naturalmente prese un carattere francese. L'esecuzione programmatica sembrò implicare anche una riuscita integrazione di francesità ed ebraicità, senza che l'una sminuisse l'altra. Il modello francese divenne l'aspirazione ultima, dove i frutti della cultura europea erano stati distribuiti mediante una dottrina rivoluzionaria progressiva, poi modificata da legislazioni susseguenti. Qui l'ebreo non soffriva di disabilità teoriche. Fu in questo scenario che avvenne l'affare Dreyfus degli anni 1890, traumatizzando gli ebrei di Francia, come anche quelli di oltreconfine, che avevano condiviso i presupposti impliciti dei legislatori francesi. Se ciò poteva accadere in Francia cento anni dopo la Rivoluzione, sarebbe mai sato possibile agli ebrei di assimilarsi? Fu la domanda che Theodor Herzl e Max Nordau si posero, indicando una risposta negativa. L'antisemitismo poteva sopravvivere un secolo di profferta cultura, teoria, buona volontà ed integrazione. La condanna totalmente ingiustificata del generale ed il clamore antiebraico di supporto indicò un comportamento più ambivalente verso gli ebrei di quanto venisse manifestato dall'estensione formalmente logica di un'uguaglianza nozionale. Per la comunità ebraica del tempo fu un'esperienza formativa e, anche ai margini, venne introdotta una nota di cautela.[1]
Gli ebrei erano già stanziati in Francia prima dei Franchi, dei Normanni e dei Burgundi, in realtà sin dal I secolo dell'era volgare in poi. E nella Francia cristiana condivisero il fato degli ebrei del mondo cristiano in generale, a volte tollerati, a volte espulsi, come nel 1306, ma sempre marcatamente tenuti separati. Il 1789 cambiò la situazione e tutte le barriere d'allora in poi furono smantellate. Come vide la propria posizione l'ebreo scrittore? C'era forse una letteratura ebraica specifica sia in contesto che in forma, nelle cose scritte o nella maniera presentata? In Francia le alternative potevano essere deprimenti, perché l'affiliazione ebraica era posta come un'opzione. Il liberalismo più liberale permetteva all'ebreo individuale di scegliere le sue adesioni e offriva le condizioni più favorevoli di assimilazione o associazione volontaria alla comunità ebraica.[2] Scrivere in francese di per se stesso implicava l'adozione della cultura francese e quindi l'assimilazione culturale. Ma c'erano degli obblighi invisibili? La promulgazione del messaggio francese implicava una fedeltà totale ad una qualche nozione esclusiva di francesità, di storia francese, di religione francese, forse riservate alla lealtà ebrea e alla storia ebraica? Lo scrittore ebreo poteva giusto essere ebreo in un senso incidentale puramente sussidiario, mentre scriveva come individuo nell'ambito della tradizione francese, formata da questa lingua, questa fonte di riferimento e pubblico. Oppure poteve essere consapevole di un'altra storia, un altro pubblico, persino di un altro registro linguistico. Poteva oscillare tra le due alternative, e spostarsi dall'una all'altra. O poteva aspirare all'una ed essere adescato dall'altra.[2]
La storia ebraica francese in tempi moderni è stata segnata e determinata da trer grandi eventi — la Rivoluzione, il processo Dreyfus e l'occupazione e deportazioni naziste. Questa è la dialettica dell'accettazione/reiezione. La rivalutazione rivoluzionaria della posizione ebraica non fu incondizionata, e governi francesi suisseguenti (particolarmente in tempi napoleonici) vollero garanzie di una lealtà ebraica esclusiva alla Francia. Il processo a Dreyfus indicò il sospetto continuativo degli ebrei da parte dei francesi e l'intrattabilità dell'anomalia. Il collasso del governo francesed durante la Seconda Guerra Mondiale, la collaborazione coi nazisti e la sottomissione di Vichy segnarono il nadir della pratica antiebraica, come altrove in Europa.[3] È nella fase del dopoguerra che gli ebrei francesi vengono ad assumere un posto centrale nell'Ebraismo europeo. La ragione principale, naturalmente, è negativa, cioè la distruzione degli ebrei europei perpetrata dal nazismo. Un'altra ragione è il grande influsso di nordafricani nel 1962. Nel 1971, gli ebrei francesi erano stimati a 580.000 persone, nel 1978 a 650.000, con un calo nel nuovo millennio, registrando 600.000 ebrei in Francia nel 2012.[4][5][6][7] Questi dati pongono la Francia molto avanti rispetto all'altra comunità ebraica consistente, quella britannica, che risulta seconda tra le comunità ebraiche europee occidentali.[8][9][10] Tale aspetto di primato europeo dà agli ebrei sefarditi una voce speciale ed unica nel quadro dell'Ebraismo d'Europa. Esiste una sintesi di elementi: a parte Israele, la Francia è la sola comunità che ha subito una trasformazione demografica radicale. La letteratura ebraica che ne scaturisce rifletterà ciò, come riflette l'ambivalenza di lealtà, l'attaccamento all'Ebrasimo e l'interpretazione dei suoi temi e destini.[11]
Ci sono critici letterari ch negano l'esistenza di letteratura ebraica in Francia come categoria separata. In un'intervista condotta su tale argomento, il critico de Boisdeffre afferma: "Tendo a credere che fino alla guerra del '39 (e nonostante l'Affare Dreyfus), l'assimilazione procedette di pari passo, che la circoscrizione che tu descrivi come ebraico regionalista forse esistette in Alsazia, ma fu altrimenti e praticamente invisibile. Emmanuel Berl deve essere considerato uno scrittore francese (tra l'altro, un grande scrittore). E lo stesso dicasi di Albert Cohen. Non mi verrebbe mai in mente di metterli in una categoria speciale."[12] Non fa quindi nessuna ulteriore analisi della narrativa ebraica, sia consapevole di sé sia tale oggettivamente. Ciò che il critico asserisce è che la Francia, sociologicamente, non ha scrittori ebrei nel senso che esistono per esempio a New York. In risposta ad un'altra domanda, il critico e storico del romanzo francese si dichiara d'accordo che lo scrittore ebreo francese può a volte cercare di riaffermare il passato e esprimerne il suo attaccamento. Ma sostiene che ciò non sia una caratteristica particolarmente ebraica, e può essere riconosciuta in una vasta gamma di rappresentazioni sia ebraiche, e sia tra ebrei e non ebrei. Infatti, de Boisdeffre vede l'assimilazione come una virtù dalla quale entrambe le parti del processo sociale, il corpo assimilato ed il corpo assimilante, possono trarne vantaggio. "Vedo sulla scacchiera letteraria francese una intellighentsia parigina ebraica che ha da tempo giocato un ruolo sostanziale. Va da Bernard Lazare a Elie Wiesel e passa per Jules Isaac. E c'è nell'Università Francese una tradizione Liberale ebraica, che tuttavia non è fondamentalmente differente dalla tradizione dell'Università Francese."[12] A parte il fatto che ci sono molti più ebrei a New York che a Parigi che permetterebbe ad una scuola di narrativa di emergere, il critico afferma anche che la Francia è una nazione maggiormente assorbente degli Stati Uniti, che conservano differenti società nel loro interno.[12] Da questa analisi emergerebbe che sia la Francia e non gli USA ad essere il melting pot, crogiolo delle genti, e che questi ultimi siano più come una insalatiera, dove le componenti individuali sono riconoscibili, mantenendo ognuno le proprie identità separate. In tale crogiolo non può esserci una letteratura ebraica separata, o finanche distinta.[1]
Esiste naturalmente una visione differente, che si esprime all'estremo nella sua percezione della letteratura ebraica come cultura letteraria "semitica" in opposto ad una cultura letteraria "iafetica": "La cultura iafetica rende l'uomo astratto, ed è assorta dalla cosa in se stessa, dal soggetto, dall'assoluto, dal principio. Il suo centro di gravità è qualcosa di molto distante, un elaborato sistema copernicano che si muove verso il sole milioni di chilometri da noi." Così afferma il critico francese Emmanuel Rais[13] Nella concezione iafetica, la persona individuale è ridotta a nient'altro che una minima parte dello schema — mentre la visione ebraica, continua Rais, pone l'uomo al centro, come afferma la Mishnah Avot, dove è condannato colui che interrompe il proprio apprendimento per osservare un suggestivo fenomeno naturale. "La Natura non è altro che la creazione di Dio, da ammirare non per se stessa, ma come testimonianza della saggezza di Dio... Ecco perché, per il poeta ebreo, alla Natura viene sempre assegnato un significato al di là dell'intrinseco, ed è solo un termine metaforico, un segno in un sistema alfabetico di riferimento. Non sarà mai di per se stesso il centro, ma il fine. La quintessenza del mondo ebraico è l'antropomorfismo."[13] Per l'ebreo, Dio è un essere vivente e non un concetto astratto; il Dio degli antenati, non dei filosofi. "Questo è il nocciolo di tutta la cultura ebraica, niente viene chiuso, niente proibito, solo l'accento è diretto altrove — tutti i fenomeni naturali sono considerati non per se stessi, in principio, in astratto, ma come funzione dell'uomo al suo centro. È per gli uomini che Dio ha creato il mondo, ed è sotto questo aspetto che il poeta ebreo Lo vede, anche se si reputa un ateo."[13] Rais asserisce che lo scrittore ebreo è basilarmente un animale differente, sebbene la sua situazione sia complicata da vari gradi di assimilazione culturale: "La quercia più bella è quella che somiglia meno al tiglio e che sia più difficile da scambiare per un'altra specie di albero. Sarebbe la quercia più specifica, più tipica di tutte; l'ibrido, ciò che è di categoria incerta sta solo in periferia, ai margini."[13] E ciò accade anche in letteratura. La poesia, quanto più se stessa, è totalmente differente, come espressa da Edmond Fleg e André Spire.[14] Entrambi "non solo si proclamano ebrei nelle proprie scelte di soggetti (nella misura in cui il soggetto è il risultato di una scelta deliberata per un vero poeta), ma anche riguardo alla struttura interiore delle loro opere. È sufficiente per un ebreo essere poeta in qualsiasi lingua per essere poeta ebreo. La sola condizione necessaria è sincerità e onestà con se stesso. È sufficiente, in pratica, essere quello che uno è senza sacrificare gli elementi necessari della propria personalità nell'illusione fallace di snobbismo assimilazionista."[13] Con la Bibbia, il non ebreo tende a trattarla liberamente. Il poeta ebreo, sostiene Rais, è lontano dalla forma alessandrina classica e dalla poetica in prosa (tendenza postsimbolista): "Il mondo occidentale ha un'inclinazione allo statico, nell'affermazione e costruzione. L'ebreo, invece, è un elemento mobile, dialettico."[13]
Questo carattere separato è stato difficile da descrivere o anche da isolare nella prosa. Altre descrizioni del romanzo ebraico evidenziano, come ha fatto de Boisdeffre, l'omogeneità basilare della cultura francese: "La Francia ha il genio dell'unità, nessun talento per la diversità, nessuna propensione al pluralismo."[15] Tale opinione non nega il carattere ebraico del romanzo, ma lo colloca primariamente nelle reazioni ad una data circostanza storica, come l'Olocausto, che ha compromesso il senso fondamentale dell'ebreo francese di identificarsi con questa nazione, sua patria, o il successo di Israele nella Guerra dei Sei Giorni che improvvisamente trasformò la condizione di tale nazione (e l'esistenza collettiva ebraica) e quindi, secondariamente, la condizione dell'ebreo non israeliano ai propri occhi e a quelli degli altri.[15]
Esistono pertanto tre interpretazioni differenti presentate come il carattere della narrativa ebraica in Francia: 1) essenzialmente non esiste tale narrativa eccetto come fenomeno regionale transitorio e locale; 2) la letteratura ebraica francese esiste certamente e risponde in vari gradi di intensità a circostanze storiche, riflettendo un senso ebraico di insicurezza, orgoglio o incertezza; 3) esiste una narrativa ebraica di carattere così specifico che non solo ha un colore determinato dai propri temi e reazioni palesi, ma è intrinseco alla sua natura e linguaggio.[14]
L'esposizione francese classica della lealtà ebraica è stata fatta da Edmond Fleg (1872-1964) e nella maniera più chiara e programmatica di tutte le sue opere, nel suo Purquoi je suis Juif (1927).[16] È il profilo autobiografico familiare di un ebreo ai margini dell'Ebraismo che passa dalla periferia al centro, cioè ad una posizione incondizionata di adesione e fede nel futuro dell'Ebraismo. Come indica il titolo (uno di una serie di affermazioni "perché sono..."), l'opera è composta da un credo, che offre le caratteristiche principali e la struttura della sua vita, storia ed essenza. Scritta sia in forma di autobiografia e di dichiarazione a suo figlio (non ancora nato) per il futuro, presenta le sue convinzioni passate e le sue aspettative presenti. Tenta di collegare la condizione attuale dell'Ebraismo e degli ebrei allo loro storia. Sopravviveranno? O, per dirla diversamente, ci saranno ancora ebrei nel 1960? (L'opera è stata scritta nel 1927). "Penso di sì. Sono sopravvissuti ai Faraoni, a Nabuccodonosor, a Costantino, a Maometto, all'Inquisizione e all'assimilazione. Sopravviveranno anche all'automobile."[2] L'Ebraismo poteva sembrare precario negli anni '20, continua Fleg, ma lo è sembrato spesso anche prima, ha confrontato e superato molte situazioni e sfide drammatiche. Recentemente è riuscito a persistere di fronte al richiamo suadente dell'Europa moderna. La caratteristica della nuova cultura è la tecnologia, che presenta una sfida di tipo differente, secolare ed impersonale. Per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi spoglia, e sebbene non possiamo ora predire come, persisterà, asserisce Fleg nella sua dichiarazione di fede, nell'era tecnologica e oltre. È persino in grado di risorgere. L'Ebraismo può morire e rinascere, come è successo nel caso dell'autore stesso.[16]
Fleg continua il suo sketch autobiografico illustrando questo punto preciso. Descrive l'Ebraismo della propria giovinezza, la vita ebraica come venne a conoscerla, "una mistura di tutte le sorte di azioni vitali, condotte però in una maniera così semplice che non la consideravo come Ebraismo." Apparentemente non capiva in che cosa consisteva realmente, né la materia gli veniva spiegata in maniera soddisfacente. Il che indica che il legame era emotivo piuttosto che razionale. Il suo nesso con l'Ebraismo veniva consolidato dalla gioia associata, non da una presentazione convincente di argomenti ordinati alla sua conservazione. E fu ciò che, negli anni successivi della maturità, gli servì da fondamento per il "ritorno". La Pesach, per esempio: "Di tutto quello che doveva significare, io ne ero ignaro; non lo chiesi né agli altri né a me stesso. Sapevo solo una cosa: che il volto dei miei genitori acquisivca, in questi momenti, uno splendore di gioia e serenità che da allora ho osservato solo nei ritratti dei grandi santi."[2] Il bambino aveva certamente aneliti religiosi, ma il suo attaccamento ebraico doveva essere disturbato in seguito dall'inconsistenza ritualistica dei genitori e dall'ignoranza degli insegnanti. Fu anche tentato dal Cristianesimo nella sua ricerca di fede totale. In quel epoca scrisse: "Dio, illuminami con la Tua luce, mostrami che esisti." Per Fleg, il trasferimento da Ginevra a Parigi fu decisivo; fu una transizione da adolescenza a maturità: "A Ginevra, dove ero nato, i clan erano totalmente separati; non avevo vissuto altro che una vita ebrea. Il nostro ghetto non era più rinchiuso da catene, ma era pur sempre un ghetto." E fu a Parigi che parve perdere il suo appetito religioso, diventando un umanista alla maniera di Auguste Comte e poi un esteta alla moda, elevando l'Arte al livello di religione. Sia la nozione relativista della società sia la valutazione dell'Arte rimpiazzò l'Ebraismo, che assunse quindi una posizione limitante e abietta.[16]
E nel 1894 accadde l'Affare Dreyfus. Si divisero i campi, e si avvertì una lealtà subliminale. Perché altrimenti questo "affare" dovette incidere così tanto? L'Ebraismo sembrò essere arrivato al capezzale, percettibile persino nella crescente tendenza assimilazionista della sua famiglia: "Nella sua conformazione patriarcale, Israele era già così tanto agonizzante, che se doveva morire ovunque come era morto in me, non c'era nient'altro da fare che lasciarlo morire." Ma l'Affare Dreyfus mise alla prova la tesi, e sollevò non soltanto una solidarietà umana generale, ma un sentimento specificamente ebraico. Rese la "questione ebraica" vivide in lui, sebbene in tal modo anche tragica. Allora era forse un sionista, uno dei seguaci di Herzl, spinto ad adottare questa soluzione radicale dall'osservare e scrivere di questo affare. Sì, in verità, era diventato un sionista. Ma rimase anche molto francese — un nuovo punto nel suo sviluppo: "Abbandonando quindi l'egoismo del dilettante, cominciai a scavare nelle profondità del mio essere cercando una tradizione, e la trovai... una tradizione francese mescolata a quella ebraica." Il sionismo sarebbe stato eccitante, specialmente per i tre milioni [stima ottimista!] che avrebbero vissuto in Israele: "Ma per i dodici milioni che sarebbero rimasti dispersi per il mondo, per costoro, e per me stesso, rimane la tragica domanda — Cos'è l'Ebraismo? Cosa deve fare l'ebreo? Come si è ebrei? Perché essere ebrei?" Così decise di prendersi alcuni anni per studiare l'Ebraismo. Cercò prova di Dio, e la trovò nell'esistenza persistente del popolo ebraico. In sintesi, dice: "Sono ebreo, perché generato da Israele e avendolo perso, ho sentito in me la sua rinascita, più vitale di me stesso."[2] Avrebbe trasmesso questo sentimento a suo figlio come "tutti i padri" lo hanno trasmesso a lui e, soprattutto, attraverso lui, attraverso il sangue. E tale sangue continuerà a scorrere, nonostante le defezioni, "fino alla fine dei giorni". Questa è la passione che ora Fleg trasmette, nelle sue opere e nella sua lunga vita (89 anni) in generale, nelle sue poesie di tema ebraico, raccolte nel volume Écoute Israêl, l'Éternel est notre Dieu, l'Éternel, il cui titolo è l'inizio delle preghiera centrale della fede ebraica, lo Shema. Queste poesie sono spesso ambientate nel passato, ma riguardano anche il futuro, il futuro ebraico nelle forme di aspettativa messianica.[16]
Ideologicamente, il poeta André Spire (1868-1966, morto a 98 anni) fece una svolta simile a quella di Fleg. Come Fleg, "scoprì" l'Ebraismo, e quindi rinacque.[17] Nei suoi Poèmes Juifs, restringe questa scoperta ulteriormente: "Avevo riscoperto la fede? Nient'affatto. Ma (avevo ritrovato) i miei antenati, la mia razza, l'Ebraismo della mia prima giovinezza. Ero diventato nuovamente Ebreo con le E maiuscola." Come Fleg, accostò in giustapposizione la francesità e l'ebraicità combinandole insieme, poiché aggiunge: "Poeta francese e finanche poeta ebreo."[17] Si dibatte nella definizione di poeta ebreo, titolo che gli era stato inequivocabilmente assegnato, non solo da se stesso, ma anche dall'importante sociologo e filosofo Georges Sorel nel 1908, che scrisse: "Ecco l'anima ebraica attraverso il tempo. Spire, da questo momento in poi, ha segnato il suo posto tra coloro che vivono, combattono, muoiono per elevare la dignità ebraica." Spire scrive nella sua introduzione del 1919: "Le nostre poesie non sono ebraiche per soggetto, ma per sentimento."[17] Naturalmente, se la scelta del soggetto doveva determinare la natura ebraica di un'opera, allora chiunque poteva optare per tale categoria. Ma Spire dichiara con empatia:
- Mi chiedi perché amo questi paria
- L'unico proletariato in cui spero.
Per Spire, l'Ebraismo non è una categoria astratta, ma una realtà corrente espressa mediante la vita e la storia ebraiche. La storia ebraica è sofferenza passata e presente, e la sua ossessione è con Dio che ha tradito il Suo popolo. La Torah, la Legge, la pratica, i comandamenti, la fede, hanno orecchie "solo per le lagrime che cadono dai quattro angoli dell'universo", non per piacere o gioia. Gli ebrei rimangono
- un popolo senza diritti, un popolo senza terra:
- Una nazione torturata da tutte le nazioni.
Li invita a sognare del "tempio distrutto" e dichiarare fede imperitura in un Dio traditore. Questa è la forza costante di Israele. Questo è il suo mondo ebreo, così differente dal mondo francese (quello della sua cultura e della sua lingua):
- Vieni a difendermi
- Contro l'arsa ragione di questa terra felice.
Egli deve scegliere tra i due elementi in conflitto nella sua formazione necessaria. Ma trova stucchevole la morbida francesità quintessenziale.[17] Cosa vuole Israele? Nella sua poesia "Assimilation", cita Renan:
- Israele aspira a due cose contraddittorie,
- di essere come tutto il mondo e di essere a parte.
Questa poesia commenta l'ironia dell'ebreo quasi cristiano, il cui naso è quasi dritto (e dopotutto alcuni cristiani hanno il naso adunco). Ma c'è tuttavia una distinzione qualitativa.[17] Loro sono felici,
- ma tu, cosa fai nel tuo angolo, goffo e triste,
- Pieno di commiserazione, pieno di disprezzo?
Ciò che l'ebreo dovrebbe fare è essere fedele a se stesso e "rincorrere" la sua anima antica che è giunta sin qui (cioè, in Francia) per cercare "te". È qui che il conflitto francese/ebraico avviene nell'individuo. L'ebreo non può, o almeno non è, a suo agio nell'ambito dell'ambiento cristiano, in una dimora cristiana. Gli interessi dei due sono così differenti. Il cristiano in Francia si preoccupa del suo tè, del suo gioco di bridge, dei suoi teatri. In breve, si preoccupa "della sua amata tranquillità".[17] Questa è la civiltà francese, e in tale rispetto il cristiano ha ragione di diffidare dell'ebreo che è così differente:
- Hai ragione, tra noi due,
- Di temere un po', compagno!
- Poiché vivono solo in una febbre
- I miei due antichi protettori:
- Il mio disagio, la mia tristezza.
Il contrasto è colto come tra il "presente" e l'"eterno" nella sua poesia "Le Messie":
- Arte, se ti dovessi accettare, la mia vita sarebbe affascinante
- I miei giorni passerebbero leggiadramente, piacevolmente, graziosamente.
- Tratterrei e possiederei il transiente Presente.
- — Ma il mio cuore, vivrebbe ancora contento
- Se tu gli strappassi il suo splendido sogno:
- Il domani eterno che avanza?
Ma non è solo il domani che avanza nella poetica di Spire. Fa inoltre appello all`oggi sublime tramite la personificazione della Musica. Israele risorgerà fiera, come nella poesia "Exode" che termina:
- E nel miele delle tue api,
- Il latte delle tue pecore, l'uva dei tuoi vigneti,
- Vedrai stare eretta, risorta e giovane
- Il tuo orgoglio, Israele.
Le poesie di Spire dopo il 1918 diventano sempre più sioniste. Vedono la condizione ebraica del tempo suscettibile di miglioramento grazie ad un rinnovato senso di nazionalità. Ora è il momento da sfruttare — nella sua poesia "A la Nation Juive", scrive:
- Sei ancora degno di vivere.
- La terra dei tuoi padri ti sarà data
- ...Ma tu esiti.
- Devi spezzare così tante catene:
- Ansiosamente, ti chiedi:
- È questa la fine dell'esilio? È il principio?
In queste poesie di Spire, gli ebrei sono a volte il tema, ma sempre l'ispirazione. Come gli altri autori ebrei francesi, quelli impegnati in entrambe queste categorie, Spire si sente attratto dai due centri, ed è costretto a confrontare e contrapporre. Il mondo dell'immediato, del piacevole, è attraente ma essenzialmente frivolo. L'altro mondo è esigente, ma reale ed eterno. In un senso politico, le due scale temporali possono essere unificate. Emergenza richiede urgenza, e gli ebrei possono tramutare il loro destino permanente in una politica presente.[17]
Come già notato supra, una delle caratteristiche più interessanti della scena francese è la voce data agli ebrei sefarditi, quegli ebrei provenienti da un ambiente mussulmano piuttosto che cristiano. L'identità può essere scoperta e poi definita solo in relazione a qualcosa di differente. Gli ebrei di Francia provenienti dal Nordafrica sono stati consapevoli, a causa della loro situazione, di tre raggruppamenti, per quanto sfumati e modificati — i mussulmani africani, i cristiani francesi e gli ebrei. Albert Memmi (n. 1920), originario di Tunisi, non è interessante solo per le sue circostanze biografiche, ma anche per il modo in cui ha cercato tramite queste circostanze di dare risalto alla sua situazione ed identità, investigando il significato della propria ebraicità sullo sfondo di un mondo occidentale non intimamente familiare.[18] La sua prima e più duratura preoccupazione è la sua propria identità: "Discendevo da una tribù berbera non riconosciuta dai Berberi, poiché ero un ebreo e non un mussulmano, un abitante di città e non uno di montagna... Indigeno in una nazione di colonizzazione, ebreo in un ambiente antisemita, africano in un mondo dove l'Europa era trionfante" (Portrait d'un juif, 1962) Era un puzzle, per gli altri ma anche per se stesso, e doveva quindi approfondire, investigare il problema. Universalmente non era accettato, quale simpatizzante dei colonizzati per quanto egli stesso non fosse mussulmano; quale ebreo sebbene non europeo; quale borghese; quale nordafricano sradicato. Scopre che gli ebrei orientali non si sono molto distinti nei circoli culturali occidentali. Questi stessi circoli hanno ben poche informazioni precise sull'Islam e la rispettiva condizione contemporanea (e presto dovranno scontare questa ignoranza sulla propria pelle), ma sono posseduti da ambizioni coloniali devastanti o da vaghe nozioni romantiche. Come portavoce di tale condizione ibrida, Memmi presenta non solo il suo Ebraismo, ma anche la sua comprensione dell'Islam. La condizione ebraica che riesce ad isolare, la chiama "judéité", in parallelo a "négrité" [negritudine]. Questa judéité è il riconoscimento del fatto d'essere un ebreo, distinto dall'Ebraismo — un religione — o giudaismo o nazione ebraica, tutti termini collettivi, che secondo Memmi non indicano autoidentificazione. Judéité si applicherebbe a coloro che, essendo ebrei e come ebrei, sentono di nutrire questo carattere in un qualche modo.[18]
Il libro di Memmi, Juifs et Arabe (1974), asserisce che, da una parte, gli ebrei orientali in Israele sono sottorappresentati e, dall'altra, che la situazione degli berei nelle nazioni mussulmane è poco conosciuta. La "questione ebraica" è stata percepita in Occidente come peculiare e limitata alla cultura cristiana, e anche il sionismo è stato reputato un fenomeno europeo occidentale. Ma anche le terre arabe hanno avuto e hanno ancora i propri ghetti ebraici e "chi potrebbe visitarli senza rimanerne traumatizzato?" Contraddicendo l'impressione prevalente che tali relazioni negative presenti in questi paesi siano generate dal sionismo, in realtà il sionismo era fiorito come un primo prodotto dell'oppressione degli ebrei in queste aree geografiche. È vero che gli arabi furono colonizzati dall'Europa, ma gli ebrei in terre arabe soffrirono una doppia colonizzazione, prima come indigeni e poi come non arabi. Memmi non nega il diritto dei palestinesi di determinare il proprio destino come nazione, ma, dice, ci sono due diritti: "Entrambi siamo e rimaniamo vittime della storia umana; le nostre due vicende sono notevolmente parallele."[18] Ciò che tragicamente ma inevitabilmente successe tra Israele ed il mondo arabo fu uno scambio di popolazioni. In breve, l'ebreo orientale condivide la "condizione ebraica comune". E allora cosa ne è della judéité che Memmi ha formulato? "La judéité non è soltanto un modo d'essere, più o meno transitorio, da parte del soggetto. Essere ebrei è una condizione imposta ad ogni ebreo, in gran parte dall'esterno; è principalment il risultato di relazioni tra ebrei e non ebrei." Ciò potrebbe somigliare alla definizione negativa dell'ebreo data da Sartre. Ma per Sartre "ebreo è una persona considerata tale da altri. Ma ciò mi lascia insoddisfatto. Un ebreo, per me, prima di tutto, è qualcuno trattato come tale da altri, e capace di essere trattato ancor peggio."[18] La judéité deve avere una realtà in situazioni dirette. E per quanto riguarda l'ipotesi che l'ebreo possa e debba assimilarsi alla cultura generale, Memmi sostiene che questa cultura generale, anche se apparentemente secolarizzata, è fondamentalmente religiosa, tagliando fuori quindi l'esperienza ebraica da qualsiasi altra: "In poche parole, essere ebrei è non partecipare completamente alla cultura dominante, non frequentare lo stesso tempio degli altri concittadini, non vivere gli stessi ritmi collettivi, non reagire sempre con la stessa sensibilità, con tutte le relative conseguenze che ne conseguono."[18]
L'autore riassume cos'è per lui essere ebreo, sotto tre voci: 1) essere consapevoli di esserlo; 2) che ci sia una condizione oggettiva (cioè, che il soggetto sia effettivamente ebreo, e sia trattato come tale dagli altri); 3) appartenere ad una data cultura. L'ebreo indubbiamente è. Esiste. Ma è anche oppresso. E gli ebrei sono oppressi non soltanto in un particolare rispetto, ma in tutte le dimensioni collettive. In altre parole, dobbiamo ammettere che sono oppressi come popolo: "Di conseguenza, oppressi come popolo, gli ebrei non possono essere veramente liberati, eccetto come popolo. Oggi, la liberazione dei popoli ha un carattere nazionale."[18] Il sionismo è il risultato logico della sua posizione, un sionismo che naturalmente non viola principi sociali o egalitari, ma piuttosto li conferma. Dopo tutto, qual è l'alternativa? Essere un ebreo arabo? "Obiettivamente, come si dice, non ci sono comunità ebree in nessuna nazione araba: e non troverai un solo ebreo arabo che sia pronto a ritornare al proprio paese natio."[18] E ciò per la detta ragione: l'esperienza ebraica nel mondo arabo è stata tanto negativa quanto quella nel mondo cristiano. È stata la funzione semplice ma sublime dello Stato di israele di metter fine all'oppressione degli ebrei — passata, presente e potenziale. L'ebreo colonizzato può diventare Israele liberato, senza nessun effetto necessariamente dannoso su altri gruppi che cercano la propria liberazione. Memmi si sposta dalla percezione della posizione anomala dell'ebreo sotto l'Islam ad un riconoscimento della nazionalità patria dell'ebreo, e quindi al veicolo di espressione di questa nazionalità: il sionismo e l'attuale Israele.[18]
Non c'è stato romanzo di scrittore ebreo francese che abbia avuto più grande risonanza di Le Dernier des Justes (L'ultimo dei giusti) di André Schwarz-Bart (1928-2006).[19] È una riflessione non solo sull'Olocausto ma anche cul corso del destino ebraico, attraverso la storia ed il mito. Tuttavia la posizione del libro è ambivalente. In ogni generazione ci sono stati trentasei (ebr. lamed-vav), spesso ignoti agli altri e a volte anche a se stessi: questa storia è stata narrata sin dai tempi del Talmud. Ma il romanzo di Schwarz-Bart specula sulla funzione dell'uomo giusto (tzadik) e suggerisce che questo particolare lignaggio del giusto, i Levy, è ora giunto alla fine. Un uomo giusto nasce per il martirio nel senso popolare e in quello letterale, per soffrire e rendere testimonianza. Questa particolare discendenza dei Levy risale a York, nel 1185. Naturalmente, vi è stato martirio precedentemente, in tutta l'Europa, ma il martirio di Yom Tov Lévy "venne elevato oltre la tragedia comunitaria fino a diventare leggenda." La leggenda è che "il mondo si basa su trentasei uomini giusti, i lamed-vav, non distinti in nessun modo dai comuni mortali, a volte sconosciuti a se stessi [neanche loro sanno di esserlo]". Sono necessari "perché i lamed-vav sono il cuore intensificato del mondo, e tutti i nostri dispiaceri vengono versati su di loro, come dentro ad un recipiente." Sono come gli altri, solo di più, e si distinguono per l'esperienza ebraica collettiva. Sono casi tragici, e più tragici di tutti sono coloro che non sanno quello che sono.[19]
I Levy sono presenti alle espulsioni dalle varie nazioni europee — Inghilterra, Francia, Spagna, ecc. e soffrono nei pogrom. Nella Polonia del XIX secolo, a Mordecai Levy, nonno dell'"ultimo giusto" Ernie, viene chiesto perché il lamed-vav debba soffrire così tanto. La risposta è che egli "prende su se stesso la nostra sofferenza... e la eleva al cielo, e la pone ai piedi del Signore che perdona. Ecco perché il mondo continua... nonostante tutti i nostri peccati." Non deve compiere miracoli, perché egli é un miracolo. Poi la generazione successiva (Benjamin) si sposta a Varsavia, e quindi a Berlino, dove succede qualcosa di nuovo: Benjamin cessa di credere nella leggenda, anzi non vuole crederci. Il figlio di Benjamin Ernie, nella Germania di Hitler, dichiara: "Dio non è qua. Ci ha dimenticati." Quando Ernie sente parlare della leggenda, apprende anche che il soffrire del lamed-vav non cambierà nulla. I giusti possono "splendere", ma non accede niente. Mordecai crede che la sofferenza serva solo a glorificare il Nome, ma Ernie, ora arruolatosi in Francia nel 1938, "sentiva lo stesso antico stupore che non ci fosse rima o ragione nell'universo."[19] Questo è ciò che deduce, e lo dice. Ma la sua vita parla differentemente. Fuori dal pericolo a Marsiglia, sceglie di ritornare nella Parigi occupata, va nuovamente "tra le fiamme". Ma stranamente, in termini secolari, non si unisce ai gruppi della resistenza, perché "per lui sarebbe stata una morte di lusso. Non aveva desiderio di distinguersi, o staccarsi dalle umili processioni del popolo ebraico." Anche se avesse cessato di credere, si comportava comunque come un lamed-vav, rappresentando gli ebrei, contenendo in sé le loro sofferenze, interpretando il ruolo di martire. Questo è ciò che fece Gesù, secondo Ernie. Si presenta a Drancy, il campo di concentramento di Parigi, prima di esservi chiamato. Con questo, entra "nell'ultimo girone dell'inferno dei Levy". E procede oltre, deportato ad Auschwitz, entrando quello che è ormai diventato il "regno di Israele".[19]
Le Dernier des Justes è un testo poetico lacerante, risonante di implicazioni. La leggenda è antica, ma l'allusione nel titolo è moderna. Siamo in un univeso post religioso, ma anche in un universo post olocausto. Il mondo non solo è stato spogliato di Dio, ma è stato spogliato anche dal senso morale residuo che possa rendere significativo il martirio silenzioso dei trentasei. Questa implicazione non vien resa esplicita nel romanzo, ma il canto dei nomi sterminati nei campi della morte mette fine non solo al romanzo. La convinzione di Mordecai che la sofferenza debba glorificare il Nome affinché abbioa un significato, può ora essere messa alla prova. È l'Olocausto quella sorta di martirio tradizionale, già a noi familiare dal Medioevo? È questo martirio una testimonianza volontaria data a Dio, e c'è nessuno che assista il testimone? Queste sono le domande sollevate dal libro nel suo titolo disturbante, nella degenerazione rapida della fede dei Levy nella propria missione, e nel senso della leggenda. Il mondo è cambiato per sempre, ed in questo mondo nuovo non c'è posto per il "giusto".[19]
Una visione molto differente del trascorso mondo ebraico in un nuovo contesto europeo ci viene presentato da Le Livre de ma Mère di Albert Cohen (1895-1981), commovente rapsodia della madre morta.[20] Che le possa dedicare un tale libro appassionato pare quasi incestuoso: chiaramente la madre rappresenta la propria giovinezza, il proprio passato, un mondo trascorso. E la sua morte è per lui la morte della sua giovinezza. "Compiangere tua madre è compiangere la tua gioventù." Con la sua morte "la mia morte si avvicina". La sua morte è per lui un richiamo alla propria mortalità. Lo riempie inoltre di rimorsi, sentendo di non averla apprezzata sufficientemente. Forse anche di essere stato lontano da lei nei suoi ultimi momenti, a Londra. Ora sono entrambi condannati alla solitudine: "Tutto finito, tutto finito, niente più mamma, mai più. Siamo entrambi veramente soli, tu sottoterra, io nella mia stanza. Io, quasi morto tra i viventi, tu quasi viva tra i morti."[20]
Questa è anche una sorta di autobiografia, ma ossessivamente concentrata sull'unico soggetto. Suo padre non viene quasi mai citato, eccetto con il commento en passant che di solito era disoccupato. Quando l'autore si trasferisce a Ginevra da Marsiglia all'età di diciotto anni, l'isolamento di sua madre (il suo matrimonio era stato di convenienza) pare totale; i momenti culminanti della sua vita sono le proprie visite ad Albert a Ginevra, altrimenti e presa a scrivergli, a preoccuparsi di lui, ad essere orgogliosa dei suoi successi letterari e professionali in generale. La sua ossessione di lui deve essere stata pari all'ossessione di Albert per lei. Ma le preoccupazioni interiori aumentano con la sua morte. Nella propria estraneità (sono originari di Corfù) e nelle proprie superstizioni, la madre è chiaramente ebrea. Vuole che Albert frequenti la sinagoga anche se è ateo, ed osservi anche le altre cerimonie religiose, come "protezione dal malocchio". Questa espressione delle sue origini la estrania dall'ambiente francese, ed è consapevole che suo figlio si è innalzato al di là delle proprie umili origini. Ora che ella è morta, Albert è consumato dai rimorsi. Poiché non l'ha amata sufficientemente, e non è stato premuroso con lei come doveva esserlo, ora cerca una qualche compensazione nozionale. Raramente le scriveva, quindi ora si rimprovera: "Non volevi scriverle dieci parole, pertanto ora scrivine quarantamila." Il suo amore per Albert, d'altra parte non aveva limiti, sebbene egli avesse fatto ben poco per meritarselo: "L'amore di mia madre non aveva paragoni. Perdeva ogni discernimento quando si trattava di suo figlio. Accettava tutto di me, posseduta da una spirito divino che percepiva l'amato, il povero amato, così poco divino." Non potrà mai più essere amato così, incondizionatamente. Sua figlia lo ama ora, ma ella poi passerà oltre e se ne andrà per la sua strada, via. Sua madre aveva il genio dell'amore, come altri possono avere il genio dell'arte. Ora Albert è totalmente desolato senza di lei: "Sono un frutto senza albero, un pulcino senza chioccia, un cucciolo solo nel deserto, e ho freddo. Voglio essere il cocco di Mamma. È ridicolo parlare così alla mia età? Ebbene, così stanno le cose."[20]
Esercizio autorivelatorio, questo libro evidenzia anche l'inevitabilità della situazione. I vivi sono condannati a vivere e a godere la vita, offendendo quindi i morti. Ma naturalmente anche i vivi a loro volta moriranno, e verranno offesi. Perlomeno, da morta la madre non è più ebrea: "Gli occhi degli ebrei viventi sono sempre impauriti. Tale è la nostra specialità, la sfortuna." Vuole credere nella vita eterna dopo la morte, quando potrà rincontrare sua madre. Tuttavia per ciò necessita di un supporto convincente nella fede — ma tale supporto non sembra avvenire.[20]
Questa riassunto parziale degli aspetti della narrativa ebraica moderna in Francia indica alcuni degli aspetti in cui il tema ebraico si manifesta. Ce ne sono altri. La storia recente è stata notevolmente segnata e deturpata dell'esperienza ebraica. Il romanzo di Maurice Bessy (1910-1993), Car c'est Dieu qu'on Enterre (citazione da una poesia di Pasternak) narra di cento donne ebree deportate allo sterminio. È Dio che ora viene sepolto, dice il titolo, e non solo queste donne. E ci sono altri memoriali di questa storia tremenda e, per alcuni autori, spiritualmente conclusiva — come il romanzo Plus Profond que L'Abîme (Più profondo dell'abisso), di Manès Sperber. Un altro esempio eccellente del picaresco ebraico moderno è Tikoun del saggista e romanziere Arnold Mandel (1913-1987). Israele viene descritto da molti di questi autori come se avesse un destino ed un'atmosfera speciali, difficili da isolare perché così inframmisti con la propria percezione francese e la loro vita ordinaria. Ma in alcuni aspetti è pur sempre distinta, questa vita. Per Memmi, esiste la categoria di judéité, maniera di vivere che non può essere totalmente contenuta né dal "judaïsme" (Ebraismo come religione) né dalla "judaicité" (ebrei come popolo). Per Schwarz-Bart c'è un destino speciale, sebbene questo possa aver raggiunto la sua fine col passare dell'"ultimo giusto". Per Spire, esiste un senso dell'eterno contrapposto al sentimento francese dell'immediato. Per Fleg, c'è un istinto particolare che ha scavato per l'ebreo un altro posto, e che può emergere in tempi di dure crisi. Questi sono aspetti di una visione ebraica del mondo e di se stessi nell'ambito di un contesto francese.[15][12]
Note
modifica- ↑ 1,0 1,1 1,2 Esther Benbassa, The Jews of France: A History from Antiquity to the Present, Princeton University Press, 2001, partic. Cap. 7; Pierre Birnbaum & Jane Todd (trad.), The Jews of the Republic: A Political History of State Jews in France from Gambetta to Vichy, Stanford University Press, 1996; Michael Graetz & Jane Todd (trad.), The Jews in Nineteenth-Century France: From the French Revolution to the Alliance Israelite Universelle, Stanford University Press, 1996, pp. 17-40 & passim.
- ↑ 2,0 2,1 2,2 2,3 2,4 Edmond Fleg, Guide Juif de France, Parigi, 1971 e succ. rist.; cfr. anche i suoi Pourquoi je suis Juif, Les Belles Lettres, 1927/2004; Écoute Israël: Et tu aimeras L'Eternel, Parigi, 1935/58. Vedi sotto, nota 16.
- ↑ Beatrice Philippe, La Révolution et l'Empire". Etre juif dans la société française du Moyen Age à nos jours, Montalba, 1979, passim.
- ↑ Jewish Population of the World, in Jewish Virtual Library, 2012. URL consultato il 14 dicembre 2014.
- ↑ Serge Attal, "French Jews fear anti-Semitism will destroy community", su timesofisrael.com, Times of Israel, 14 gennaio 2013. URL consultato il 14 dicembre 2014.
- ↑ Joe Berkofsky, "More Than One Quarter of Jews in France Want To Leave, Poll Finds", su jewishfederations.org, Jewish Federations, 25 marzo 2012. URL consultato il 14 dicembre 2014.
- ↑ Gil Yaron, "Fears of Anti-Semitism: More and More French Jews Emigrating to Israel", su spiegel.de, Spiegel, 22 marzo 2012. URL consultato il 14 dicembre 2014.
- ↑ John Irish e Guillaume Serries, "Gunman attacks Jewish school in France, four killed", su reuters.com, Reuters, marzo 2012. URL consultato il 14 dicembre 2014.
- ↑ Jim Maceda, "Four shot dead at Jewish school in France; gun used in earlier attacks", su worldnews.nbcnews.com, NBC News, 19 marzo 2012. URL consultato il 14 dicembre 2014.
- ↑ D. Bensimon, "Socio-demographic aspects of French Jewry", European Judaism, 1978 e segg., nr. 1 & passim.
- ↑ A. Neher, "L'esprit de Judaisme française", L'Arche, agosto/settembre 1960.
- ↑ 12,0 12,1 12,2 12,3 P. de Boiseffre, "Y-a-t-il un roman juif?", L'Arche, dicembre 1979. Emmanuel Berl (1892–1976) fu giornalista, storico e saggista francese di origini ebraiche. Nato a Le Vésinet nel dipartimento moderno di Yvelines, è sepolto al Cimitero di Montparnasse, a Parigi. Nel 1937 sposò la cantante, compositrice e attrice Mireille Hartuch. Di famiglia ebraica della media borghesia, Berl era imparentato con Bergson e Proust, e con la scrittrice Monique Lange. Nel 1967, la Académie française gli assegnò il Grand Prix de littérature. Per Albert Cohen, si veda più avanti nel testo.
- ↑ 13,0 13,1 13,2 13,3 13,4 13,5 Emmanuel Rais, "Poètes Juifs d'expression Française", Le Monde Juif, agosto-settembre 1949; id., "Les écrivains juifs d'expression Française", Le Monde Juif, febbraio 1950.
- ↑ 14,0 14,1 Beate Wolfsteiner, Untersuchungen zum französisch-jüdischen Roman nach dem Zweiten Weltkrieg, Walter de Gruyter, 2003, pp. 138-144 & passim.
- ↑ 15,0 15,1 15,2 Jean Blot, "The Jewish novel in France", European Judaism, Vol. 5, nr. 1, 1970, fascicolo Europe: 25 Years Later, Ignaz Maybaum (cur.), publ. Athenaeum-Polak & Van Gennep Ltd, Amsterdam.
- ↑ 16,0 16,1 16,2 16,3 Edmond Flegenheimer, detto Edmond Fleg, nato il 26 novembre 1874 a Ginevra e morto il 15 ottobre 1963 a Parigi, è stato uno scrittore, filosofo, romanziere, saggista e drammaturgo francese ebreo del XX secolo. Nato da famiglia ebrea religiosa, ma incapace a trasmetterne le pratiche ai figli, fu l'Affare Dreyfus a segnare il ravvicinamento e l'adesione di Fleg alla religione ebraica. Fu particolarmente colpito da Israel Zangwill, uno dei primi sostenitori del sionismo. Dopo aver combattuto nella Legione straniera durante la prima guerra mondiale, trascorse la sua vita ad approfondire la sua conoscenza dell'Ebraismo e condividerlo attraverso i suoi scritti. Fleg fu autore di un vasto affresco poetico in quattro volumi: Écoute Israël, L'Éternel est notre Dieu, L'Éternel est Un, Et tu aimeras l'Éternel. Tradusse anche una parte della Bibbia in francese: Le Livre du Commencement: Genèse (1946) e Le livre de la sortie d’Égypte (1963). È stato anche il librettista dell'opera di Ernest Bloch (Macbeth) e George Enescu (Œdipe). Nel 1920 fu presidente onorario degli Éclaireurs Israélites de France (FEI), ispiratore e consigliere del fondatore Robert Gamzon. Fleg fondò inoltre Amitié Judéo-Chrétienne de France con Jules Isaac, nel 1948. Dopo la guerra, diventò membro della Alleanza israelitica universale. Le sue opere principali sono: Anthologie juive (1923); Anthologie de la Pensée Juive, ed. 2006; L'Enfant prophète (1926); Pourquoi je suis juif (1927); Le Juif de pape, opera teatrale (1925); La Maison de bon dieu, opera teatrale (1920); Le Marchand de Paris, commedia (1929); Le Chant nouveau (1946), ed. Albin Michel, 1972; Moses (1948), rist. col titolo Moïse raconté par les sages, Albin Michel, 1997; Nous de l'Espérance (1949); Correspondance d'Edmond Fleg pendant l'affaire Dreyfus ed. André E. Elbaz, Parigi 1976; Jésus raconté par le Juif errant, Albin Michel, 2000; Écoute Israêl, l'Éternel est notre Dieu, l'Éternel, raccolta di poesie, Éditions Flammarion, 1954 (include la poesia Rachi; Vers le monde qui vient, raccolta "Presences du Judaisme", Editions Albin Michel, Parigi 1960. Si vedano anche i saggi critici di Odile Roussel, Un itinéraire spirituel: Edmond Fleg, La Pensée universelle, 1978; Olivier Rota, "La pensée d’Edmond Fleg. Coopération judéo-chrétienne, messianisme et sionisme", Sens, luglio/agosto 2011, pp. 499–518.
- ↑ 17,0 17,1 17,2 17,3 17,4 17,5 17,6 André Spire, nato a Nancy nel 1868 da famiglia ebrea della media borghesia, fu scrittore e poeta, pioniere del verso libero e della teoria poetica. Giurista, revisore dei conti al Consiglio di Stato francese, e alto funzionario, fu impressionato dall'Affare Dreyfus e divenne attivista sionista. Partecipò al movimento delle università popolari e contribuì alle Cahiers de la Quinzaine de Charles Péguy, pubblicò numerosi saggi e raccolte di poesie, tra cui Poèmes juifs (Premi Mercure de France e Kundig). Dopo la sconfitta della Francia e l'occupazione nazista con le misure antisemite, fuggì in esilio nel 1941 negli Stati Uniti, dove insegnò storia della poesia francese presso la New School for Social Research (New York). Dopo la guerra, tornò in Francia dove pubblicò ancora diversi libri, tra poesie e saggi sull'evoluzione delle tecniche poetiche. Morì a Parigi nel 1966, a 98 anni. Opere di poesia: La Cité présente, Ollendorf, 1903; Et vous riez!, Cahiers de la quinzaine, 1905; Versets (Et vous riez - Poèmes juifs), Mercure de France, 1909; J'ai trois robes distinguées, Moulins, Cahiers du Centre, 1910; Vers les routes absurdes, Mercure de France, 1911; Et j'ai voulu la paix!, The Egoist, 1916; Poèmes juifs, Ginebra, Kundig, 1919; Samaël, poème dramatique, Crès, 1921; Poèmes de Loire, Grasset, 1929; Instants, Cahiers du Journal des Poètes, 1936; Poèmes d'ici et de là-bas, The Dryden Press, 1944; Poèmes d'hier et d'aujourd'hui, José Corti, 1953; Poèmes juifs, Albin Michel, 1959. Opere di prosa: Israel Zangwill, Cahiers de la Quinzaine, 1909; Quelques Juifs, Mercure de France, 1913; Les Juifs et la guerre, Payot, 1917; Le Sionisme, 1918; Le Secret, Nouvelle Revue Française, 1919; Fournisseurs, Éditions du Monde Nouveau, 1923; Henri Franck, lettres à quelques amis, Grasset, 1925; Refuges, avec neuf bois gravés de Maurice Savin, Éditions de la Belle Page, 1926; Quelques Juifs et demi-Juifs, Grasset, 1928; Plaisir poétique et plaisir musculaire, Vanni-José Corti, 1949; Souvenirs à bâtons rompus, Albin Michel, 1962. Cfr. per la valutazione critica Paul Jamati, André Spire, Seghers, 1962; André Duclos, "Un homme différent", in Europe, n° 467, marzo 1968.
- ↑ 18,0 18,1 18,2 18,3 18,4 18,5 18,6 18,7 Albert Memmi, nato in Tunisia (a Tunisi), allora un protettorato della Francia, da famiglia di lingua araba, è il figlio di François Memmi, artigiano sellaio ebreo italiano e Marguerite Sarfati, ebrea sefardita di ascendenza locale. Memmi ha avuto un'istruzione dal sistema scolastico francese, prima al Liceo Carnot di Tunisi e poi all'Università di Algeri, dove ha studiato filosofia e, infine, alla Sorbona. Memmi si ritrova al crocevia di tre culture e ha costruito la sua opera sulla difficoltà di trovare un equilibrio tra Oriente e Occidente. Accanto al suo lavoro letterario, ha perseguito una carriera di insegnante presso il Liceo Carnot a Tunisi (1953) e, dopo l'indipendenza della Tunisia, in Francia presso l'Ecole Pratique des Hautes Etudes e presso l'Università di Nanterre (1970). Sebbene abbia sostenuto il movimento di emancipazione della Tunisia, non riuscì a trovare una sua nuova sistemazione nel nuovo stato islamico. Ha pubblicato il suo primo romanzo in gran parte autobiografico, La Statue de sel, nel 1953, con la prefazione di Albert Camus. La sua opera più nota è un saggio teorico con prefazione di Jean-Paul Sartre: Portrait du colonisé, précédé du portrait du colonisateur, pubblicato nel 1957, che apparve all'epoca come un supporto per i movimenti di indipendenza. Questa opera mostra come la relazione tra colonizzatori e colonizzati condizioni l'uno e l'altro. Memmi è noto anche per la Anthologie des littératures maghrébines pubblicata nel 1965 (volume I) e il 1969 (Volume II), apparsa in Italia in occasione del decimo anniversario dell'indipendenza dell'Algeria. L'autore è membro del comitato di sponsorizzazione della Coordination française pour la Décennie de la culture de paix et de non-violence e fa anche parte del comitato patrocinante dell'associazione La Paix maintenant (Pace ora). È membro del Comitato d'Onore della Association pour le droit de mourir dans la dignité. Concetto di ebraicità: Nei primi anni 1970, Albert Memmi riflette su ciò che significa essere ebrei e fonda il concetto di ebraicità come base della sua opera di esplorazione dell'essere ebreo. Questo concetto, del quale ha gettato le basi, sarà poi utilizzato da molti filosofi. Concetto di eterofobia: Nel suo libro Le racisme, Albert Memmi sviluppa il concetto di eterofobia: "Il rifiuto degli altri in nome di non importa quale differenza." Questo termine si riferisce alla paura diffusa e aggressiva di altri che può trasformarsi in violenza fisica. Il razzismo è una particolare espressione di eterofobia. Per ulteriori notizie biografiche e critiche, si vedano Guy Dugas, Albert Memmi, écrivain de la déchirure, Naaman, 1984; Nathalie Saba, Les paradoxes de la judéité dans l'œuvre romanesque d'Albert Memmi, Edilivre-Aparis, 2008 — entrambi consultati per il presente testo. Opere di Alberr Memmi: La Statue de sel, Corréa, 1953; Agar, Corréa, 1955; Portrait du colonisé, précédé du portrait du colonisateur, Buchet/Chastel, 1957; Portrait d'un juif, Gallimard, 1962; Anthologie des écrivains maghrébins d'expression française, Présence africaine, 1964; La Libération du juif, Payot, 1966; L'Homme dominé, Gallimard, 1968; Le Scorpion ou la confession imaginaire, Gallimard, 1969; Juifs et Arabes, Gallimard, 1974; Le Désert, ou la vie et les aventures de Jubaïr Ouali El-Mammi, Gallimard, 1977; La Dépendance, esquisse pour un portrait du dépendant, Gallimard, 1979; Le Mirliton du ciel, Lahabé, 1985; Ce que je crois, Fasquelle, 1985; Le Pharaon, Julliard, 1988; L'Exercice du bonheur, Arléa, 1994; Le Racisme, Gallimard, 1994; Le Juif et l'Autre, Christian de Bartillat, 1996; Le Buveur et l'amoureux - le prix de la dépendance, Arléa, 1998; Le Nomade immobile, Arléa, 2000; Dictionnaire critique à l'usage des incrédules, éd. du Félin, 2002; Portrait du décolonisé arabo-musulman et de quelques autres, Gallimard, 2004; Térésa et autre femmes, éd. du Félin, 2004; Le Testament insolent, Odile Jacob, 2009; Portraits [raccolta di prec. pubbl.], edizione critica di Guy Dugas, coll. Planète libre, CNRS, 2015.
- ↑ 19,0 19,1 19,2 19,3 19,4 André Schwarz-Bart, di origini polacche ed ebraiche, figura tra gli esponenti di maggior spicco della letteratura francese post-bellica. La sua opera più nota è il romanzo Le Dernier des Justes (L'ultimo dei giusti, Feltrinelli, 2007), nel quale narra la storia completa di un'intera famiglia ebrea, dalle Crociate alla deportazione ad Auschwitz. Ha vinto il Prix Goncourt nel 1959 e il Jerusalem Prize nel 1967. I suoi genitori emigrarono dalla Polonia nel 1924, quattro anni prima della sua nascita. Nel 1941, quando la Francia fu militarmente occupata dalla Germania nazista, essi furono deportati ad Auschwitz e gasati. Il giovane André, rimasto solo, si unì alla Resistenza francese. Ebbe però inizialmente alcuni problemi, poiché la sua lingua madre era lo yiddish e non il francese. A queste esperienze lo scrittore si è spesso rifatto per i suoi romanzi e non solo nel già citato Le Dernier des justes. Il resto della sua vita è segnato dall'attività di scrittore, finché le complicazioni seguite a un grave intervento cardiochirurgico ne hanno causato il decesso nel 2006 nella Guadalupa, territorio delle Antille francesi dove era nata la moglie Simone, anche lei scrittrice. Con la moglie ha scritto Una donna chiamata solitudine. Opere: Le Dernier des Justes, Prix Goncourt 1959, Livre de Poche, 1968; La Mulâtresse Solitude, Le Seuil, 1972; Étoile du matin, Le Seuil, 2009; Un plat de porc aux bananes vertes, con la moglie Simone, Seuil, 1967; Hommage à la femme noire, con Simone Schwarz-Bart, Éditions Consulaires, 1989. Per critica biografica e letteraria, si vedano Aude Désiré, "Simone et André Schwarz-Bart, lauréats du prix Carbet", Association Mamanthé, 15 dicembre 2008; Francine Kaufmann, "André Schwarz-Bart, le Juif de nulle part", L’Arche nr. 583, dicembre 2006, pp. 84-89. Cfr. anche Pierre Gamarra, "Les livres nouveaux". Europe, nr. 519-521, 1972, pp. 274–276 (con recensione de La Mulâtresse Solitude).
- ↑ 20,0 20,1 20,2 20,3 Albert Cohen, ebreo d'origine greca, naturalizzato svizzero-francese, funzionario della Società delle Nazioni (poi Nazioni Unite), proveniente da una famiglia ebrea di industriali del sapone. Nel 1900 i suoi genitori (Albert aveva solo 5 anni) emigrarono a Marsiglia per sfuggire alle persecuzioni razziali. Qui si diedero al commercio di olio d'oliva e poi di uova, mandando dapprima il figlio a scuola presso un istituto privato cattolico, poi al liceo Thiers, dove tra i compagni di scuola diventò amico di Marcel Pagnol. Si diplomò nel 1913 e l'anno successivo si trasferì a Ginevra, dove studiò diritto e letteratura. L'attività letteraria di Cohen cominciò nel 1921, con la pubblicazione della raccolta di poesie Paroles juives. In seguito pubblicò il romanzo Solal (1930), che intendeva parte di un ciclo su una famiglia ebrea i cui membri erano coraggiosi combattenti di buonumore contro le ingiustizie sociali. In qualche modo autobiografico (come in fondo tutti i suoi scritti), il protagonista era un giovane greco che si affacciava ai primi amori sull'isola di Cefalonia affascinato dall'avventura e dalla morte. La reazione della critica fu ottima e il libro ebbe un grande successo. Nel 1938 uscì Mangeclous, un romanzo attorno all'ipocrisia e ai tentativi di scavalcarla da parte di cinque amici, anche loro greci, tra educazione sentimentale e politica. Dopo 16 anni, Cohen diede alle stampe Le Livre de ma mère (1954), un ritratto affettuoso dal tono tenero considerato d'ottima misura da parte dei critici. Nel 1968 uscì il suo libro più famoso, Belle du Seigneur. Premiato con il Grand Prix du roman de l'Académie française, il romanzo riprende i personaggi di Solal del libro omonimo e di Mangeclous come fosse una sorta di trilogia. Alcune sue scene, tagliate su richiesta dell'editore Gaston Gallimard, vennero pubblicate a parte l'anno successivo con il titolo Les Valeureux. Da qualcuno considerato come il migliore "inno alla donna" del XX secolo, il libro è tuttora venduto in molte copie come una delle più affascinanti e liriche storie d'amore della letteratura francese. Opere: Paroles juives (1921); Solal (1930 e, corretta, 1969), trad. Elena Tessadri, Solal, Rusconi, 1982; trad. Giovanni Bogliolo, Milano: Rizzoli, 1994; Mangeclous (1938 e, corretta, 1969); Le Livre de ma mère (1954), trad. Giovanni Bogliolo, Il libro di mia madre, Rizzoli, 1992; Ezéchiel (teatro) (ed. definitiva 1956); Belle du Seigneur (1968), trad. Eugenio Rizzi, Bella del Signore, Rizzoli, 1991; Les Valeureux (1969); Ô vous, frères humains (1972), trad. Carla Coletti, A voi fratelli umani, Marietti, 1990; Carnets 1978 (1979), trad. D.S. Estense, Diario, Rizzoli, 1995. Per biografia e critica letteraria si vedano Bella Cohen, Albert Cohen, mythe et réalité, Gallimard, 1991; Alain Schaffner, Philippe Zard, Albert Cohen dans son siècle, Le Manuscrit, 2003; Maxime Decout, Albert Cohen : les fictions de la judéité, Classiques-Garnier, 2011.