Filosofia presocratica e socratica/Parmenide e l'eleatismo

Indice del libro

Con Parmenide (c. 515/510 – c. 590 a.C.) la ricerca cosmologica dei presocratici viene rivoluzionata radicalmente. Nato a Elea in Magna Grecia da una famiglia aristocratica, fu iniziato alla filosofia dal pitagorico Amina[1] e a sua volta fondò una scuola nella città natale. Risultato della sua speculazione è un poema intitolato Sulla natura (Perì physeos), nel quale per primo affronta il problema dell'essere, gettando le basi dell'ontologia.[2] Le sue conclusioni sull'unità e immutabilità di ciò che è segneranno profondamente i filosofi a lui contemporanei e successivi, e daranno vita a un vivace dibattito tra i sostenitori della sua posizione (tra cui spiccano gli allievi Zenone e Melisso) e chi invece difenderà l'esistenza del mutamento e della molteplicità degli enti (i cosiddetti «pluralisti»).

Le tre vie

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La filosofia parmenidea parte dal presupposto che essere (to on), linguaggio e pensiero coincidano: «È necessario dire e pensare che l'essere è».[3] Il pensiero e il linguaggio presuppongono necessariamente che ciò di cui si pensa o si parla esista, e ogni volta che si esprime un giudizio su qualcosa, di questo qualcosa si sta dicendo che è. Ne consegue che è impossibile dire o pensare ciò che non è.

Nel suo poema, Parmenide dice di essere condotto dalla dea, la quale gli spiega l'esistenza di tre vie di ricerca:

  1. l'essere è e non è possibile che non sia
  2. il non essere non è ed è necessario che non sia
  3. l'essere è e il non essere non è

Con Parmenide la filosofia sposta l'oggetto del suo studio dalle cose, cioè gli enti (ta eonta), all'essere in quanto tale. Attraverso le tre vie si cerca di scoprire le vere caratteristiche dell'essere, dipendenti dall'atto di affermare e quello di negare. L'unica via praticabile è la prima, che intende l'essere come puro e privo di ogni compromissione con il non essere. In questa si trovano tutti i segni della verità, in quanto è la via della ragione e del logos. La seconda invece, che conduce al non essere, è falsa e porta all'errore.[4] Non meno pericolosa è però la terza, che rappresenta il modo di ragionare degli uomini comuni («l'opinione dei mortali»), che vengono definiti «bicefali», persone «dalla doppia testa» per le quali, sulla base delle apparenze dei sensi, l'essere e il non essere sono al tempo stesso identici e diversi. Questi giungono quindi a pensare che anche il non essere sia.

L'opposizione essere/non essere per Parmenide corrisponde a quella pensiero/sensi. Se gli ultimi si limitano alla percezione di ciò che appare, il pensiero è in grado di cogliere l'essere in modo stabile e sicuro, poiché è in grado di andare oltre le apparenze e scoprire la verità profonda della realtà. Inoltre qualsiasi cosa venga appresa con il pensiero ha necessariamente una sua espressione nel linguaggio. In ultima analisi, l'ordine del mondo coincide con le leggi del pensiero e del linguaggio.[5]

Caratteristiche dell'essere

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All'essere Parmenide attribuisce una serie di attributi, che lo rendono una realtà esistente e non solo un concetto logico e linguistico.[6] L'essere infatti è

  • ingenerato e imperituro, poiché se nascesse dovrebbe passare dal non essere all'essere, e se morisse passerebbe dall'essere al non essere, entrambi eventi impossibili
  • in un eterno presente, cioè non ha un passato (se «era» allora «non è più») né un futuro (se «sarà» allora «non è ancora»)
  • immutabile e immobile, poiché se mutasse o si muovesse, non sarebbe più ciò che era prima o dove era prima
  • senza fine, perché se terminasse non sarebbe più
  • intero e indivisibile, ovvero: l'essere è continuo, e se così non fosse ogni sua parte non sarebbe un'altra, e inoltre ciascuna dovrebbe confinare con il vuoto, cioè il non essere
  • unico, poiché se fosse molteplice uno non sarebbe l'altro
  • limitato e simile a una sfera: l'essere non è infinito perché altrimenti mancherebbe di tutto, mentre la finitezza è sinonimo di compimento e perfezione; Parmenide lo paragona quindi a una sfera, che è definita in modo uguale da tutti i suoi lati

Oltre a questi, Parmenide postula anche l'attributo dell'unità, che verrà poi sostenuto con forza dai suoi continuatori. A questo il filosofo di Elea accenna soltanto, senza per altro giustificarlo.[7]

Dottrina della conoscenza

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Similmente al poeta Senofane, Parmenide ribadisce la distanza tra sapere (phrònesis) e opinione (doxa). Quest'ultima corrisponde al modo in cui i mortali conoscono il mondo, un modo che, se non può essere vero, non è nemmeno necessariamente falso: è quindi verosimile, ed è necessario perché consente all'uomo di indagare in modo completo la realtà.[8] Il sapere, d'altro canto, non è inaccessibile, ed è ravvisabile nella verità umana dimostrata grazie al ragionamento. Tale verità ha però caratteri quasi divini, perciò non è minacciata dal dubbio, dall'opinione e dall'incertezza, ma è assoluta, pura, inconfutabile ed eterna. Si instaura perciò un divario incolmabile tra il sapere del saggio e l'«opinione dei mortali».

L'eleatismo dopo Parmenide

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Le tesi di Parmenide furono sviluppate e portate alle estreme conseguenze dai suoi allievi Zenone di Elea e Melisso di Samo.

La dialettica di Zenone

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Attivo tra la fine del VI e l'inizio del V secolo, Zenone ha avuto il merito di elaborare la dialettica, che utilizza per difendere il maestro confutando le tesi a lui contrarie attraverso il ragionamento per assurdo. In particolare, i suoi sforzi si concentrano sui problemi della molteplicità e della divisibilità degli enti. Per farlo ha elaborato circa quaranta paradossi, i più famosi dei quali sono dedicati alla dimostrazione dell'impossibilità del movimento.[9]

  • Paradosso della dicotomia: un mobile che si sposta da un punto all'altro dovrà toccare tutti gli infiniti punti che si trovano tra questi due, impiegando quindi infinito tempo. Ciò è però assurdo, ed è quindi assurdo pensare che un corpo possa percorrere uno spazio continuo infinitamente divisibile.
  • Paradosso di Achille: se Achille, il piè veloce, lascia un vantaggio a un corridore più lento, non riuscirà mai a raggiungerlo, poiché quando avrà raggiunto il punto in cui si trova quest'ultimo, questi si sarà spostato un poco più avanti, e una volta arrivato nel nuovo posto questi avrà proceduto ancora di poco, e così via. Il corridore più lento avrà sempre un vantaggio, anche se infimo, sul più veloce.
  • Paradosso della freccia: suddividendo in istanti il tempo che una freccia impiega per colpire il bersaglio, si noterà che in ogni momento questa occupa uno spazio uguale a se stessa. Ma ciò che occupa sempre uno spazio uguale a se stesso è fermo, quindi la freccia non si muove.

Il problema della molteplicità per Zenone si riconduce a quello della divisibilità dell'essere: se esistono diversi enti si può immaginare di racchiuderli tutti in un unico essere, e quindi pensare ciascun ente come una parte dell'essere. Ora, se l'essere è divisibile si pongono due possibilità:

  1. l'essere ha un numero finito di parti: immaginando che ci siano due parti, è necessario pensare che queste siano separate da qualcosa, cioè una terza parte; tuttavia, anche ammettendo che le parti siano tre dovrà esserci qualcosa che le separa le une dalle altre, ovvero altre parti; in questo modo il ragionamento può continuare all'infinito, rendendo assurda l'ipotesi
  2. l'essere ha un numero infinito di parti, e anche questa possibilità ammette due casi:
    1. ogni parte è inestesa, ma in questo caso, se nessuna ha una grandezza, l'essere sarebbe la somma di infiniti nulla, ipotesi assurda
    2. ogni parte è estesa, ma se così fosse anche gli oggetti comuni, essendo composti di infinite parti aventi ciascuna una grandezza, sarebbero privi limiti, cosa impossibile e negata dall'esperienza

Avendo provato l'assurdità di tutte queste ipotesi, Zenone può concludere che l'essere è indivisibile e affermarne quindi l'unità.[10]

Melisso

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Melisso nacque tra la fine del VI e l'inizio del V secolo a.C., e oltre che filosofo fu anche un politico e un uomo di mare. Può essere definito il «sistematore» della dottrina di Parmenide,[11] alla quale però apporta un proprio originale contributo. A differenza dell'eleate, infatti, Melisso pensa l'essere come infinito, in quanto non è mai nato né morto, e quindi non è circoscrivibile entro dei limiti. Questo comporta che l'essere diventa una sostanza dotata di caratteristiche quasi fisiche.

Mentre per il maestro l'essere era una realtà immobile e al di fuori del tempo, per Melisso è infinito nello spazio e nel tempo, senza un'origine o un termine, eternamente uguale a se stesso. Il filosofo di Samo rifiuta la finitezza dell'essere, poiché se avesse dei confini ci sarebbe qualcos'altro al di fuori che lo racchiuderebbe. Ciò è invece impossibile, perché oltre all'essere non c'è niente. Essendo infinito, si conclude inoltre che l'essere è uno e tutto, ed è essendo tutto non può mutare, perché non c'è nulla che non sia già.[12]

Melisso infine pone la questione del rapporto tra unità e molteplicità: se si accetta quest'ultima, si deve dedurre che ciascun ente avrà le stesse caratteristiche dell'essere, cioè unità, omogeneità, indivisibilità ecc., poiché in caso contrario si dovrebbe introdurre in essi il non essere, cosa di per sé contraddittoria. Le conclusioni, giudicate assurde dal filosofo di Samo, saranno però al centro della riflessione dei pensatori successivi.[13]

  1. DK 28 A 1
  2. Reale, pag. 135
  3. DK 28 B 6
  4. Cioffi et al., pag. 114
  5. Cioffi et al., pag. 115
  6. Cioffi et al., pag. 117
  7. Reale, pag. 139
  8. Cioffi et al., pag. 118
  9. Reale, pagg. 148-149
  10. Cioffi et al., pag. 142
  11. Reale, pag. 152
  12. Cioffi et al., pag. 145
  13. Cioffi et al., pag. 146