Divina Commedia/Inferno/Canto II

Il canto II dell'Inferno si svolge ancora nella selva oscura: siamo alla sera del primo giorno di viaggio. A questo punto Dante, salvato dalle tre fiere, espone a Virgilio i propri dubbi riguardo al cammino che sta per intraprendere: Virgilio, per rincuorarlo, gli narra in che modo la Madonna, santa Lucia e Beatrice si siano direttamente interessate alla sua salvezza. Dante, apprendendo ciò, si dichiara nuovamente pronto ad affrontare il viaggio.


Testo annotato

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Illustrazione di Paul Gustave Doré
Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno


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  • Lo giorno se n'andava...(1-6):anche questo canto si apre con una indicazione di tempo, ma questa volta non più generica e impersonale, bensì determinata nella situazione precisa in cui si trova il personaggio protagonista. Il viaggio è cominciato, e l'imperfetto (se n'andava) ci introduce appunto nel mezzo dell'azione: il tempo del crepuscolo si configura in rapporto al paesaggio (l'aere bruno) e allo stato d'animo del viandante (e io sol uno...). L'antitesi fra la quiete della natura e la veglia inquieta e solitaria del personaggio è attacco tipicamente virgiliano (cfr. Aen. IV 522-31; VIII 26-30; IX 224-8). Tuttavia in tale contrasto entrano qui 2 elementi etici estranei al testo latino: la mestizia dell'oscurità come già preludente all'inferno-dove non splende la luce del bene-e la guerra dell'animo con se stesso, che è tema dominante della cantica e motivo maestro di questo secondo canto.
  • l'aere bruno / toglieva:l'aria fattasi scura, l'imbrunire sollevava (cfr. Purg. VIII 49).
  • li animai:ogni essere vivente, quindi anche gli uomini (cfr. Aen. VIII 26).
  • che sono in terra:solo chi vive sulla terra ha la necessità del riposo e del sonno.
  • e io sol uno / m'apparecchiava:solo tra tutti, mi accingevo; l'accento posto sulla solitudine di Dante tra gli altri esseri di fronte alla grande impresa prelude al dramma interiore che si esprimerà tra poco nelle sue parole (vv.10-36).
m'apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.


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  • la guerra sì del cammino e sì de la pietate (4-5):l'espressione sintetizza nella sua densità tutta la cantica, ed è come una proposizione del tema, cui seguirà, secondo lo schema classico, l'invocazione alle Muse. La guerra è la lotta, fisica e morale, che aspetta il pellegrino e che gli è mossa dall'asprezza del cammino infernale (del cammino) e dalla compassione (de la pietate) suscitata dalle pene dei dannati. In genere antichi e moderni traducono l'espressione guerra...de la pietate come travaglio e dolore che egli avrebbe sofferto per tale compassione (e analogamente, per tale cammino). Ma sembra più consono al contesto, e a tutta l'impostazione della cantica, il senso sopra indicato; del cammino e de la pietate sono cioè presi come genitivi soggettivi. Guerra inteso come travaglio o pena sembra non corrispondere alla densità dell'espressione, che implica un combattimento reale (m'apparecchiava a sostener la guerra...). Oltretutto, a un senso generico, si sostituisce così un senso pregnante, di qualcosa che sconvolge alle radici l'animo dell'uomo, come appunto richiede la storia.
  • ritrarrà:rappresenterà dal vero; ritrare vale in Dante "raffigurare in parole" (cfr. Rime LXV 3: "Si veggion cose ch'uomo non pò ritrare").
  • la mente che non erra:la memoria, che dice sempre il vero, che non sbaglia; è una caratteristica della memoria in genere, non della sua in particolare ("mente si chiama così perché ricorda": Buti). Dante così afferma-proprio nella proposizione del tema-la veridicità del suo racconto, che non va preso dunque come un'invenzione, una semplice finzione poetica, ma come realtà ricordata e "ritratta" dal vero.
O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.


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  • O muse...:l' Inferno comincia propriamente con questo secondo canto, e quindi qui trova il suo giusto luogo l'invocazione alle Muse, come nel I del Purg. (vv.7-12) e del Par. (vv.13-36). Tale invocazione, tradizionale nella poesia classica, è un "topos" letterario mantenuto dai poeti cristiani, per i quali le Muse rappresentano l'ispirazione poetica. Questo appello riguarda infatti esclusivamente l'opera del poeta, che si accinge a un'impresa straordinaria. Qui per la prima volta Dante, con brusco mutamento di tempo (se n'andava: or m'aiutate) e di prospettiva, ci presenta il suo poema sotto l'aspetto letterario (ma già c'è un preannuncio di tale fondamentale elemento nelle parole a Virgilio del canto I), e come impresa grande e difficile. Tale atteggiamento sarà motivo ricorrente per tutto il poema (cfr. per es. XXXII 7-8: ché non è impresa da pigliare a gabbo / discriver fondo a tutto l'universo...), fino a Par. XXIII 64-9.
  • o alto ingegno...:il poeta invoca, oltre le Muse, il proprio ingegno; anche questo è un "topos" classico, non si pone dunque il problema della cosiddetta presunzione dantesca. Non a caso tuttavia esso è utilizzato da Dante, che chiama qui a raccolta tutte le sue forze (per l' alto ingegno cfr. X 59) e che più volte sottolinea nel poema, la grandezza dell'impresa (si veda anche qui il v.9). Si tenga presente il valore semantico della parola: ingegno, annotano gli antichi commentatori, è quella forza dell'animo rivolta a scoprir cose nuove. Altri intendono "ingegno delle Muse", prendendo tutta la frase come un'invocazione (O muse, o alto ingegno,...; o mente) e il senso di altissimo impegno sopra indicato, fanno preferire la prima interpretazione.
  • o mente che scrivesti...:per terza viene invocata la memoria. La triplice scansione di questo appello è sottolineata da Benvenuto: 3 cose gli sono necessarie: "la profondità della scienza" (le Muse), "la perspicacia dell'intelletto" (l'ingegno), "la vivacità della memoria" (la mente). L'immagine della memoria che scrive come in un libro è cara a Dante: essa apre la Vita Nuova (I 1), si ritrova in Rime LXVII 59, e infine in Par. XXIII 54: del libro che 'l preterito rassegna.
  • ciò ch'io vidi:Dante ribadisce con questo verbo la verità di quel che sta per raccontare (cfr. sopra v.6: ritrarrà). Egli ha veduto veramente, non ha immaginato. Il verbo "vedere" è fondamentale in questo senso in tutto il poema, e se ne riepiloga il valore in un verso dell'ultimo Paradiso, che abbraccia tutta la passata esperienza: Di tante cose quant'i' ho vedute... (Par. XXXI 82).
  • si parrà...:apparirà, si farà palese.
  • la tua nobilitate:"per 'nobilitate' s'intende perfezione di propria natura in ciascuna cosa". (Conv. IV, XVI 4); apparirà quindi la tua eccellenza nel ricordare. L'insistenza sulla memoria come elemento centrale dell'opera che qui si intraprende serve a porre in primo piano la sua veridicità storica e a mettere il lettore nella condizione di chi ascolta il resoconto di un viaggio-di cose vedute appunto-, condizione che fa parte dell'invenzione dantesca, e a cui il poeta si rifà spesso nel corso del racconto.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s'ell'è possente,
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.


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  • Io cominciai...:all'invocazione segue, in modo immediato, l'inizio del racconto. Questo modo diretto di introdurre il parlato, senza alcun preambolo, è tipico del veloce andamento narrativo della Commedia (cfr. V 73; XIV 43; XXIII 109; ecc.); il verbo è ricalcato sul virgiliano "incipere". L' Io cominciai succede idealmente alla situazione presentata prima dell'apostrofe: e io sol uno / m'apparecchiava..., come se l'interna tempesta di pensieri (cfr. oltre, vv.37-43) trovasse sbocco in queste parole. Il dubbio qui espresso, e la sua soluzione, sono l'argomento del canto, che è di fatto ancora prologo all'azione.
  • la mia virtù...:il mio personale valore, le mie capacità. La parola mantiene il senso latino "virtus". Il significato si deduce dal contesto, quasi dicesse: son io capace di tanto? (cfr. oltre v.32: io non Enëa, io no Paulo sono.) Il dubbio di Dante-si noti-è tutto imperniato sulla propria personale debolezza.
  • s'ell'è possente...:virtù è soggetto prolettico ripreso dal pron. ella: guarda se la mia virtù è all'altezza di ciò (cfr. Rime XC 50:"guarda la vita mia quanto ella è dura"); possente: che ha la possibilità, la capacità di far qualcosa; cfr. Par. XIX 55 e XXIII 47.
  • a l'alto passo tu mi fidi:tu mi affidi, mi consegni a questo difficile, arduo cammino (indica l'eccezionalità dell'impresa, che è quella stessa, come dirà subito dopo, di Enea e di Paolo); passo con valore di passaggio difficile (come a I 26) si ritrova più volte nel poema, in particolare, con lo stesso aggettivo, a XXVI 132: poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo, frase con la quale Ulisse indica l'ingresso nell'oceano.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.


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  • Tu dici...(13-15):tu racconti nella tua Eneide che il padre (parente è latinismo, cfr. I 68) di Silvio, Enea, andò ancora in vita (corruttibile ancora) e col corpo (sensibilmente) nel mondo dell'aldilà. È l'argomento del VI dell' Eneide, dove Enea si reca agli inferi per conoscere il proprio destino di fondatore di Roma. Nell'intenzione di Virgilio, questo viaggio era una specie di investitura sacra per l'eroe padre del futuro impero di Augusto. Tutto questo è presente sullo sfondo delle parole di Dante, come si precisa poi (16-21). Si osservi che mentre Dante credeva alla realtà storica di Enea, il Tu dici presenta la sua discesa agli inferi come un racconto poetico ("tu dici: cioè immagini poeticamente": Benvenuto) che assume tuttavia valore di realtà, non diversamente da quello di Dante, personaggio storico assunto a protagonista di un evento che è sì finzione letteraria, ma presentata come reale.
  • immortale / secolo (14-15):l'eterno mondo dell'aldilà; secolo indicava corso di tempo indeterminato, e si usava per indicare il tempo storico in genere, e quindi il mondo. Qui il secolo immortale, eterno, è contrapposto al secolo mortale, finito; e indica l'aldilà.
Però, se l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale


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  • se l'avversario d'ogne male...(16-18):se Dio, nemico di ogni male (Ps. 5, 5-7), fu particolarmente generoso verso di lui (i vale "gli", forma arcaica), pensando al grande effetto che da lui doveva derivare (l'impero romano), sia nella sua essenza sia nella sua qualità...(e 'l chi e 'l quale è forma scolastica-"et quis et qualis"- che indicava appunto l'essenza e la qualità di qualcosa); tutta la frase fa da soggetto al verso successivo: ciò non sembra indegno ecc. Il passo è controverso. Si indica l'interpretazione più semplice, accolta da tutti gli antichi, e che corrisponde con precisione alla sintassi del testo. Ricordiamo solo che pensando è riferito dalla maggior parte dei moderni a omo del v.19, e non a l' avversario d'ogne male del v.16 (cioè Dio); il che impone una inutile forzatura sintattica, mentre è tipicamente dantesco indicare in Dio il pensiero che predispone gli eventi dall'eternità (cfr. Conv. IV, IV 9-11 e V 3-4, e Par. XXXIII 3); in questa seconda ipotesi dunque, il senso della frase sarebbe che a Enea fu concessa la discesa agli inferi da parte di Dio proprio in virtù del suo volere e del disegno divino, ossia in considerazione (pensando) del suo compito futuro, piuttosto che trattarsi di una riflessione (pensata) dai posteri a conti fatti.
non pare indegno ad omo d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel per padre eletto:


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  • non pare indegno...:ciò non sembra ingiusto (ciò sembra ben giusto, per litote) a un uomo dotato d'intelletto, cioè di capacità di intendere. Altri propongono di costruire:"non pare, ad omo, indegno d'intelletto", cioè "non suscettibile di comprensione intellettuale", anche appellandosi a Par. IV 41-2: però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d'intelletto degno. Quest'ultima sfumatura di significato non trova appoggio negli antichi, per quanto comunque in fin dei conti il senso allegorico del testo resterebbe invariato, vale a dire la contrapposizione del viaggio di Enea rispetto a quello di Dante, con il primo invero suscettibile di essere compreso in quanto il volere divino ad averlo voluto mentre invece quello ora occorso a Dante - per parere del poeta stesso - presentantesi teoreticamente indecifrabile (cfr. vv.31-3).
  • ch'e' fu...(20-21):poiché egli (Enea) fu scelto, predestinato per tale compito storico (eletto) nel cielo Empireo stesso (il cielo di pura luce dove risiede Dio), come padre della gloriosa Roma. Sintatticamente, alla luce anche del fatto che il significato resterebbe lo stesso invariato, è lecito quanto meno supporre la possibilità che il ch'e' indichi - piuttosto che poiché egli - la congiunzione che egli, molto spesso abbreviata in questo modo; e che in questa circostanza si ricollegherebbe al non pare indegno [...]; che egli fu [...]. In ogni caso questa è l'idea cardine di tutta la concezione storica di Dante, che vede nell'impero romano l'autorità predisposta da Dio stesso al governo del mondo (cfr. nota al v.22). Questo tema di fondo, che con quello parallelo della Chiesa definisce i pilastri dell'ordine terreno su cui si basa la Commedia, è sin dall'inizio del poema annunciato con decisione.
la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del maggior Piero.


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  • la quale e'l quale:Roma e il suo impero.
  • a voler dir lo vero:il valore di questa precisazione è stato a lungo discusso; accogliamo senza incertezze la spiegazione del Nardi e del Barbi (già presente nel commento di Benvenuto) per cui essa si riferisce all'opinione-che fu anche di Dante stesso in un tempo anteriore al Convivio (cfr. Mon. II, I 2-3)-secondo la quale l'impero romano sarebbe stato fondato sulla forza, e non sul diritto (cfr. Conv. IV, IV 8-12, dove tale opinione è esposta e confutata). Qui si allude chiaramente alla concezione provvidenziale, da Dante fermamente sostenuta in tutte le sue opere, per cui Dio stesso "stabilì" fin dall'eternità l'impero romano alla guida del mondo, in vista della Chiesa di Cristo che avrebbe trovato in esso lo spazio storico per nascere e svilupparsi.
  • fu stabilita...:fu dall'eternità stabilità a capo del mondo perché vi potesse sorgere la sede del successore di san Pietro, il papa (cioè la sede della Chiesa cristiana).
  • maggior Piero:Piero (forma toscana di Pietro) indica il papa per antonomasia; il maggior Piero è quindi san Pietro, il più grande fra tutti i papi.
Per quest'andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.


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  • onde li dai tu vanto:della quale tu nel tuo poema gli dai l'onore.
  • intese cose...:gli furono dette cose (dall'ombra di Anchise, suo padre) che lo incoraggiarono alla vittoria su Turno, re dei Rutuli, dalla quale alla fine "seguì l'effetto che poco avanti si legge, cioè...l'autorità papale" (Boccaccio).
  • papale ammanto:il manto, cioè la veste pontificale, era come il simbolo del papato, ed è qui usato a significarlo. Il gran manto indica di per sé la veste papale anche in XIX 69: sappi ch'i' fui vestito del gran manto, e in Purg. XIX 104.
Andovvi poi lo Vas d'elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch'è principio a la via di salvazione.


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  • Andovvi poi:questo non è un fatto letterario, ma riconosciuto come reale. San Paolo stesso testimonia la sua andata nell'aldilà, al terzo cielo (2 Cor. 12, 2-4), andata alla quale Dante si riferisce in un altro momento essenziale del poema, la salita al paradiso (Par. I 74-5). I 2 grandi viaggi-l'uno agli inferi, l'altro al cielo-vengono così a racchiudere tutta l'esperienza che Dante compirà nella Commedia.
  • lo Vas d'elezione:san Paolo, così chiamato ("vas electionis") in Act. Ap. 9, 15. Come spiega Benvenuto, l'espressione deriva dall'urna nella quale il corriere portava il messaggio dell'elezione; così Paolo portava e predicava l'elezione, "cioè la volontà del Signore". Di lui non si specifica, come per Enea, se fu sensibilmente, cioè con il corpo, in quanto Paolo stesso lascia la cosa incerta ("non so se col corpo o fuori dal corpo, Dio lo sa": 2 Cor. 12, 3), motivo che Dante riprenderà puntualmente nel luogo sopra citato del Paradiso. Alle soglie del poema, egli vuol richiamare solennemente i 2 momenti centrali della storia del mondo, di cui l' Eneide e la Bibbia sono appunto i testimoni. Di altri veri o presunti viaggi nell'aldilà, pur noti nella letteratura, Dante tace, li ignora totalmente. Solo questi 2 esistono per lui, in quanto il loro valore stava in una funzione pubblica verso tutta l'umanità, qual è quella che egli riconosce a se stesso, e che in un certo senso riassume le altre 2.
  • per recarne conforto:per portare di là conforto alla fede, cioè per consolidare in tutti gli uomini la fede-allora ai suoi inizi-: che fu uno dei compiti di Paolo.
  • ch'è principio...:che è il principio obbligato della salvezza ("senza la fede è impossibile esser graditi a Dio": Hebr. 11, 6; cfr. Mon. II, VII 4: "nessun...senza la fede può salvarsi", e Par. XIX 103-4: A questo regno / non salì mai chi non credette 'n Cristo); ma che tuttavia non è tutto, come indica-con la consueta precisione teologica-la parola principio.
Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri 'l crede.


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  • Ma io, perché venirvi?:questo drammatico Ma io porta finalmente alla luce l'interno dubbio, dopo la lunga premessa dei vv.10-30. Quei 2, grandi e privilegiati fra gli uomini, avevano una missione da compiere per tutta l'umanità. Ma io?
  • o chi 'l concede?:la domanda è duplice: perché, con quale compito o missione (giacché è chiaro che solo in vista di uno speciale compito sono andati gli altri 2), e chi è l'autorità che concede il privilegio? In questa domanda si cela già il presentimento di un alto compito e di uno speciale intervento divino, che solo nel Paradiso verrà apertamente dichiarato.
  • Io non Enëa, io non Paulo sono:grandissimo verso, che ha tutta la forza emblematica dei versi chiave della Commedia. I 2 nomi propri, non a caso evitati prima (i 2 personaggi sono stati indicati con perifrasi: di Silvïo il parente, lo Vas d'elezïone), prendono un potente rilievo, carichi di tutta la loro storia provvidenziale, per cui ognuno dei 2 è segno di tutto un mondo (il mondo pagano culminante nell'impero, e quello cristiano espresso nella Chiesa). Di fronte a loro appare l'umile cristiano qualunque, peccatore, che Dante rappresenta, e che pure potrà esser fatto degno di altrettanto privilegio.
  • me degno...:né io né nessun altro può credere che io sia degno di affrontare questa impresa
Per che, se del venire io m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».


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  • del venire:quanto al venire (compl. di limitazione).
  • m'abbandono:mi lascio andare, mi avventuro alla cieca (cfr. TF, p. 205:"d'ora inanzi m'abandono e metto in aventura"). Si veda Aen. VI 133-5: "se tanto è il desiderio...di vedere il Tartaro negro e ti piace alla folle impresa (insano labori) affidarti (indulgere)"; dove a "indulgere" corrisponde in Dante m'abbandono, e a "insano" il folle del v. seguente.
  • temo che...non:temo che, costrutto latino dei verbi di timore ("timeo ne").
  • folle:temeraria (Benvenuto), che oltrepassa la misura. È lo stesso aggettivo che Dante userà ben 2 volte per l'impresa di Ulisse (XXVI 125; Par. XXVII 83). Esso indica, come si desume anche da questo contesto, il presumere delle proprie forze, e i 2 luoghi, e le 2 situazioni, si richiamano in maniera evidente (si veda anche l'altro rimando nell'espressione alto passo, citato in nota al v.12); le 2 coincidenze-folle, alto passo-non possono essere casuali. Sul rapporto Dante-Ulisse si ritornerà, ma si osservi già qui che esso si instaura fin dal principio del poema.
  • me' ch'i' non ragiono:meglio che io non dica. Cioè, intendi anche più di quanto io sappia esprimere. Per la forma apocopata me' cfr. I 112 e nota.
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,


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  • 37-42 Tra la domanda di Dante e la risposta confortatrice di Virgilio, questa similitudine raffigura l'atteggiamento interiore del protagonista, con lo stesso procedimento di I 55-7 (cfr. lo stesso attacco: E qual è quei...), che tende a cogliere un processo psicologico comune a tutti gli uomini, e quindi da tutti riconoscibile. Come se dicesse: come ogni uomo che... Questo volere e disvolere, tipica debolezza umana, è l'inizio della guerra annunciata al v.4, ed è il filo conduttore del canto.
  • che disvuol...:che non vuole più ciò che prima ha voluto.
  • per novi pensier: che gli sopravvengono.
  • cangia proposta: cambia il suo proposito(v.138)
  • tutto si tolle: si distoglie, rinuncia totalmente all'azione che aveva cominciato.
tal mi fec'ïo 'n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.


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  • tal mi fec'ïo:così mi comportai io.
  • oscura costa:la costa è il fianco del colle, la piaggia dove Dante ha incontrato Virgilio (I 29, 64); il luogo oscuro, richiamando il tema iniziale del canto, fa da sfondo e come da specchio allo scoraggiamento interno del protagonista.
  • perché, pensando, consumai...(41-42):perché, a forza di pensare (i pensieri che lo fermano sono quelli detti a Virgilio, nei vv.10-33), annullai del tutto (quasi la consumai col pensiero) quell'impresa che avevo cominciato così prontamente; cioè distrussi col mio pensare la possibilità di continuarla. Questo valore di annullare, distruggere (dal latino "consumo,-is") è dato al verbo da tutti gli antichi. Altri intendono da "consummo,-as": portare a termine, e cioè: portai a termine, percorsi tutta col pensiero l'impresa, e per questo divenni come l'uomo della similitudine, cioè cambiai parere. Si preferisce la prima interpretazione, perché sola si accorda col senso del verbo successivo e coi novi pensier indicati dalla similitudine. Si osservi come il pensando e il consumai ritraggano al vivo tormentoso pensiero che annulla lo slancio impulsivo dell'azione. Ogni mossa dell'animo umano appare fin d'ora ben nota al poeta della Commedia, che riesce a identificarla nel giro di un solo verso, e talvolta di un solo verbo.
«S'i' ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell'ombra,
«l'anima tua è da viltade offesa;


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  • S'i' ho ben...:Se ho ben capito le tue parole.
  • magnanimo:questo aggettivo è di grande importanza nel mondo morale dantesco. Se ne descrive il significato etico in Conv. I, XI 18-20, contrapponendolo, come qui, alla pusillanimità (la viltade del v.45): "Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così il pusillanimo, per contrario, sempre si tiene meno che non è". Il magnanimo è colui che ha il coraggio di intraprendere e sostenere cose grandi (come, in questo caso, l'autore dell' Eneide). Tale concetto, proprio dell'etica aristotelica, viene assunto da Dante-come da Tommaso d'Aquino-all'interno del suo universo cristiano, dove è centrale il sostenimento della dignità e grandezza dell'uomo, ma fondata su Dio (cfr. Conv. IV, XIX 7 e Par. VII 67-78).
  • viltade:pusillanimità; che le 2 parole si equivalgano, si desume con certezza da Conv. I, XI 2: "la quinta e ultima [ragione del disprezzo del proprio volgare], viltà d'animo, cioè pusillanimità", che disprezza appunto sé e le proprie cose. Essa è considerata un vizio, in quanto impedisce all'uomo di compiere le nobili cose a cui pur sarebbe chiamato. Così Tommaso nel commento all' Eth. Nic. (l. IV, lect. VIII ad 1123b), e così Dante nei versi seguenti (46-8).
  • offesa:colpita, e quindi menomata. Il verbo "offendere" è spesso usato da Dante per sentimenti che intaccano l'animo; cfr. IV 41; V 102 e 109; VII 71.
la qual molte fïate l'omo ingombra
sì che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand'ombra.


  48
  • molte fïate:spesso, molte volte.
  • ingombra:impedisce, ostacola nel cammino, opponendo un ingombro.
  • d'onrata...lo rivolve:lo fa tornare indietro, desistere, da un'impresa onorevole.
  • come falso veder...:come un credere di veder qualcosa che non c'è fa tornare indietro una bestia quando prende ombra ("ombrare" si dice delle bestie che si spaventano per qualcosa che credono di vedere). La viltade fa vedere ostacoli che non ci sono.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch'io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.


  51
  • Da questa tema...:affinché tu ti sciolga, ti liberi, da questo timore. Il timore, che riprende la viltade del v.45, è già dichiarato ingannevole dal paragone precedente con la bestia ombrosa. Tuttavia il pellegrino deve essere liberato da quell'"ombra" che lo impedisce-e che è il senso della propria indegnità (v.33); ed ecco la risposta, che non gli dice, si osservi bene, che egli sia in qualche modo degno, ma che la bontà divina si è mossa gratuitamente a farlo tale.
  • nel primo punto...:nel primo momento in cui provai dolore per te, cioè conobbi la tua condizione.
  • dolve:è perfetto arcaico di "dolere"-al latino "doluit"-poi sostituito da dolse per analogia con i perfetti in -si.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.


  54
  • Io era...:si apre con questo verso un nuovo scenario, e appare per la prima volta Beatrice, colei che sempre porta con sé il segno e il richiamo del divino nella vita di Dante. La luce che inonda questi versi, che irraggia lo splendore di un altro mondo in quella oscura costa, è la risposta, sul piano figurativo, alle angosce di prima; il v.55 sembra mettere in fuga da solo ogni ombra e ogni timore. Ritornano qui con Beatrice nel verso di Dante-dopo tanti anni-i modi e gli accenti della Vita Nuova (cfr. i vv.55-7), ma usati ora con la consapevolezza matura di chi, dopo l'esperienza delle Rime petrose, delle canzoni morali e dottrinali, del Convivio, si rifà a quel passato per riprenderne l'atteggiamento interiore-quell'intenzione pura che seguiva nella bellezza l'orma del divino (Purg. XXX 121-3), e che ora gli consente di ripartire e di abbandonare l'oscurità e l'errore. Tali modi quindi hanno un valore emblematico di riepilogo di una storia, proprio come Beatrice stessa, che è sì quella di allora, ma anche qualcosa di ben altro, figura centrale della grazia divina nella vita di Dante.
  • sospesi:nel limbo dantesco, dove si trova Virgilio (cfr. oltre, canto IV), gli spiriti vivono, pur nell'inferno, in uno stato intermedio tra peccatori e salvati, in quanto sono, come dice Benvenuto, "senza pena e senza speranza" (sol di tanto offesi / che sanza speme vivremo in disio: IV 41-2); di qui l'immagine della sospensione, come in una bilancia, a esprimere uno stato eternamente incompiuto, che Dante usa ugualmente in IV 45 (per il riscontro dell'immagine con un passo di Bonaventura, cfr. la nota ivi).
  • beata e bella:questa coppia di aggettivi affini o dittologica (come più oltre soave e piana) è di tipico gusto stilnovistico; la differenza fra i 2 significati è sempre una sfumatura, quasi una variazione sul tema. Fin dalla prima battuta, Beatrice porta con sé il ricordo e l'aura stessa della Vita Nuova.
  • tal che...:tale nell'aspetto, per quella bellezza e beatitudine che da lei spirava, che non potei altro che chiederle di comandare.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:


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  • Lucevan...:gia abbiamo detto della forza vincitrice di questo verso luminoso: gli occhi, elemento primario di tutto lo Stil Novo, tornato nella Commedia, fino agli ultimi canti, con valore diverso ed eminente, in quanto in essi splende la luce di Dio.
  • la stella:singolare per il plurale: le stelle in generale. Tale uso è documentato da Dante stesso: cfr. Vita Nuova XXIII, Donna Pietosa 50 e Conv. III, Amor che ne la mente 80 (in tutti e due i luoghi, si ritrova nella dichiarazione in prosa la forma "le stelle"). Cfr. anche Cavalcanti, Rime XLVI 2: "più che la stella / bella, al mi' parere".
  • soave e piana:tutti gli antichi riferiscono questi aggettivi al parlare della scienza divina, cioè al valore simbolico di Beatrice:"poiché il parlare divino è soave e semplice ('suavis et planus')" (Benvenuto); e piano è preso nel senso di "chiaro" e "aperto". Questa dittologia, con leggere variazioni, è peraltro ritrovabile nelle rime di Dante e degli stilnovisti (cfr. Dante, Rime LXIX 10:"co gli atti suoi quella benigna e piana"; Lapo Gianni, Rime XII 23:"ma fie negli occhi suoi umil'e piana"; ecc.), dove il piana vuol dire "dolce", "benevola", e in questo senso è inteso da tutti i moderni. Tuttavia, come Beatrice è sì quell di prima, ma insieme figura di una realtà che la trascende, così anche il suo parlare è sì sempre quello, ma può ben darsi che quel modo dolce e semplice si sollevi ad indicare il parlare proprio di Dio, che non è quello orgoglioso e difficile dell'uomo.
  • in sua favella:nel parlare; va riferito a soave e piane e a con angelica voce: era tale nel suo parlare.
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto 'l mondo lontana,


  60
  • "O anima cortese...:il discorso comincia secondo lo schema retorico classico, con la "captatio benevolentiae", cioè con le lodi all'interlocutore per ottenerne il consenso. Tuttavia questo "topos" viene qui ad assumere un particolare valore di gratuita gentilezza, verso chi si trova in posizione tanto inferiore, in quanto a Beatrice non era in alcun modo necessario conquistarsi l'accondiscenza di Virgilio (cfr. 54). Si osservi il dolce andamento musicale del verso, che dà il tono a tutto il parlare di Beatrice.
  • quanto 'l mondo lontana:durerà lontana nel tempo (lontana è predicativo) quanto durerà il mondo (cfr. Aen. I 607-9:«...Finché al mare scorreranno i fiumi, finché le ombre copriranno il dorso dei monti, finché il cielo avrà stelle, il tuo nome, le tue lodi, i tuoi pregi in me resteranno»).
l'amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt'è per paura;


  63
  • l'amico mio, e non de la ventura:amico vero, e non quelli che mutano secondo la fortuna, e quindi amano questa, più che l'amico. È il tema dell'amore disinteressato, centrale nella Vita Nuova, e che ha vasti riscontri sia tra gli antichi (cfr. soprattutto il De amicitia di Cicerone) sia tra gli autori medievali (Abelardo). Per un riscontro puntuale con testi ben noti a Dante, si veda Ovidio, Tristia I 5, 33-4:«Siete appena 2 o 3 voi che mi restate amici: gli altri erano compagni della buona sorte ("Fortunae"), non miei», e Brunetto Latini, nel Favolello 72-3:«ch' amico di ventura / come rota si gira». Questa interpretazione, già proposta da Benvenuto, è più convinciente dell'altra tradizionale, che intende mio e della ventura come genitivi soggettivi (amato da me, e non dalla fortuna che lo perseguita), sia per i richiami evidenti ai testi citati, sia soprattutto per il senso corrispondente alla situazione di Dante, che si salva proprio per quell'amore (cfr. v.104), e che in tutta la scena si appella alla Vita Nuova, mentre non si trova in tale stato per colpa della fortuna, ma del proprio errore.
  • è impedito...paura (62-63):è bloccato nel suo cammino a tal punto, che si è volto indietro per la paura.
e temo che non sia già sì smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.


  66
  • e temo...ch'io mi sia tardi...(64-65):tutta la terzina esprime trepidazione, quel timore che è tipico dell'amore (è l'amore infatti che muove Beatrice, v.72); posta al centro del discrorso di Beatrice, è forse la più rilevante connotazione della sua umanità femminile, evidentemente fuori dal simbolo, e anche dalla sua realtà ormai oltre l'umano (come beata dovrebbe saper bene, infatti, che non è troppo tardi); se vi accostiamo il premuroso attacco (O anima cortese...) e la motivazione el tutto personale del v.69 (sì ch'i' ne sia consolata), ne risulta in pochi cenni una ben determinata persona umana, con quel tratto delicato e schivo che sarà proprio di tutte le giovani donne dantesche. Beatrice, come Virgilio, appare come realtà storica prima che come figura.
  • smarrito:per la perdita della diritta via (I 3).
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c' ha mestieri al suo campare,
l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata.


  69
  • ornata:quell'ornamento, che è bellezza, rende efficace la parola. È questo il valore profondo dell'arte poetica, che ha la virtù di muovere il cuore umano.
  • e con ciò ch'ha mestieri:con ciò che è necessario (è di mestiere) alla sua salvezza (al suo scampare da quell'impedimento); cioè con l'aiuto che gli darai per il cammino da intraprendere.
  • l'aiuta:aiutalo, imperativo.
 
Illustrazione di Paul Gustave Doré
I' son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.


  72
  • I' son Beatrice...:il nome-così importante nella vita di Dante, quel nome che già annuncia la funzione di chi lo porta-è pronunciato solo alla fine, quando la persona è già delineata nel suo aspetto esteriore e nei movimenti dell'animo. È il nome della fanciulla amata nella giovinezza, per cui Dante compose il giovanile "libello" della Vita Nuova, raccogliendo la maggior parte delle rime scritte per lei in un racconto che vuol celebrare appunto un rinnovamento della sua vita-e della sua poesia-dovuto alla forza elevatrice dell'amore disinteressato (si veda D. De Robertis, Il libro della "Vita Nuova", Firenze 1970, cap. V). Essa è personaggio ben storico, non meno di Virgilio (di lei ci informa già Pietro di Dante: "in realtà, una nobildonna di nome Beatrice, insigne per costumi e per bellezza, nata nella famiglia dei Portinari, visse al tempo dell'autore nella città di Firenze"). Beatrice Portinari, coetanea di Dante (Vita Nuova II 2), morì giovanissima nel 1290, come egli stesso narra. A questa persona, che già rappresentò per lui il richiamo sensibile alle realtà ultrasensibili (Vita Nuova XXVI), Dante affida nel poema la propria salvezza, raffigurando in lei ciò che conduce l'uomo, oltre i limiti posti dalla natura, alla beatitudine eterna, e cioè-in largo senso-la grazia divina o, come i più intendono, la scienza delle cose divine. Essa è dunque, come Virgilio, una figura, cioè insieme realtà storica e simbolo, alla maniera delle realtà dell'Antico Testamento (cfr. Conv. II, I 6-8). Pur rappresentando, come apparirà in modo indubbio alla fine del Purgatorio, una realtà che la trascende, Beatrice non cessa mai di essere se stessa, suscitando nell'animo di Dante lo stesso tremore e commozione dei giorni fiorentini, proprio come Virgilio suscita il grido d'amore nel gran diserto. In questo modo, che lega l'evento terreno a quello divino, risiede la grande forza dell'invenzione di Dante.
  • del loco...:dal luogo dove desidero tornare, cioè dal cielo (per la prep. di per il moto da luogo cfr. I 74 e nota). Questo verso allontana Beatrice, dal Limbo dove è scesa, di una distanza infinita. Ella appartiene a un altro mondo, come già il suo aspetto e il suo modo di parlare hanno chiaramente detto.
  • amor mi mosse...:è l'amore suo personale per Dante, che tuttavia s'identifica ormai con l'amore divino, del quale solo vivino i beati. Che il primo aspetto sia presente, lo dicono i vv.61-6, che parlano di un preciso rapporto personale, ribatido nelle parole di Lucia ai vv.103-5. Ma quest'amore è anche parte di quell'amore eterno che nel mondo di Dante è causa prima di ogni evento o atto (cfr. per il verbo "muovere" l'ultimo verso del poema). Questo stesso amore, che spinge Beatrice a mandare Virgilio, le farà mandare Bernardo a condurre Dante all'ultima visione: a che priego e amor santo mandommi (Par. XXXI 96). Il coincidere dello storico con l'eterno, del gesto terreno dell'uomo con il suo destino ultimo, è alla base di tutta la Commedia, e ne determina il linguaggio.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".
Tacette allora, e poi comincia' io:


  75
  • di te mi loderò sovente a lui:spesso gli farò le tue lodi. Si riprende il tema iniziale (58-60) della lode a Virgilio; esso rientra in tutto il tono del discorso di Beatrice, che sembra voler dare al poeta latino, per sempre escluso dal luogo donde ella viene, ogni altro possibile confronto: la fama nel mondo, e perfino una lode in cielo. L'assurdità teologica di tale proposta corrisponde esattamente a quella delle parole di Virgilio a Catone (Purg. I 82-4), quando gli offre di parlar bene di lui a Marzia nell'inferno. Le 2 frasi si spiegano dunque a vicenda con l'umana premura, e cioè la concreta realtà delle 2 guide di Dante, che sembrano-non a caso-scordare alcune regole fondamentali dell'oltramondo (come a Dante stesso accadrà più volte), spinte dalla loro naturale sollecitudine per gli altri, che è tratto comune ad ambedue.
  • Tacette:Tacque
"O donna di virtù sola per cui
l'umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c' ha minor li cerchi sui,


  78
  • "O donna di virtù...:o signora di tutte le virtù: cfr. Vita Nuova X 2, dove già Beatrice è chiamata "regina de le vertudi". È un altro preciso e decisivo richiamo, fatto nel momento solenne in cui Virgilio riconosce Beatrice e ne identifica la funzione.
  • sola per cui...(76-78):per la quale soltanto l'umana specie trascende ogni cosa contenuta (ogne contento) entro il cielo della luna (che, essendo il primo, ha la circonferenza-li cerchi sui-minore di tutti). Dentro il cielo della luna è contenuta, nel sistema tolemaico, appunto la terra, e dire sotto la luna equivaleva a dire: sulla terra (cfr. VII 64). Fin dagli antichi, la quasi totalità degli interpreti riferisce il pronome relativo a donna, intendendo Beatrice nella sua funzione di simbolo della sapienza divina. Oggi, seguendo il Barbi, per evitare l'improvviso sovrapporsi del simbolo al vivo personaggio di Beatrice, alcuni illustri interpreti (Petrocchi, Mazzoni, Bosco) lo riferiscono invece a virtù: «per la quale virtù...». Ma si tratta secondo noi di un grave errore critico.
tanto m'aggrada il tuo comandamento,
che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi;
più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento.


  81
  • m'aggrada:mi è grato, gradito.
  • che l'ubidir...:che, se già mi fossi mosso a ubidire, mi parrebbe sempre tardi (cfr. Par. XI 81).
  • più non t'è uo'...:d'altro non hai bisogno (non ti è d'uopo)-per essere ubbidita-che di espormi il tuo desiderio; cioè non son necessarie, da parte tua, lodi o promesse. (L'interpretazione è confortata dalla scena analoga di Purg. I 91-3: Ma se donna del ciel ti move e regge, / come tu di', non c'è mestier lusinghe: / bastisi ben che per lei mi rechegge.).
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l'ampio loco ove tornar tu ardi".


  84
  • Ma dimmi...:ma piuttosto dimmi la ragione per cui non esiti a scendere; la domanda di Virgilio, così naturale, serve a introdurre-con movimento che diventerà tipico del poema, quasi a passare da una cosa meno importante a ciò che più preme-il motivo del timore, che è filo conduttore del canto.
  • in questo centro:quaggiù all'inferno: la terra era ritenuta centro del mondo, e l'inferno era posto al centro della terra; nell'espressione è implicito un senso di angustia, in contrasto con l' ampio loco del verso successivo (Momigliano).
  • de l'ampio loco:dall'Empireo, il cielo che più ampio si spazia (Purg. XXVI 63). L'ampiezza è segno di libertà e amore, dove spaziano i beati, mentre i dannati sono chiuso nel cieco carcere infernale (X 58-9).
  • ardi:desideri con ardore; cfr. v.71. Nella richiesta di Virgilio è implicita l'idea che ci devon esser ben profonde ragioni per lasciare quel luogo che forma-anche per lui-l'oggetto del più ardente sospiro.
"Da che tu vuo' saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch'i' non temo di venir qua entro.


  87
  • Da che:poiché
Temer si dee di sole quelle cose
c' hanno potenza di fare altrui male;
de l'altre no, ché non son paurose.


  90
  • Temer si dee...:si devono temere solo le cose che ci possono nuocere; è sentenza aristotelica, che qui-tutt'altro che «inutile saccenteria» (Momigliano)-ha una sua funzione precisa, di risposta al timore di Dante (temo che la venuta non sia folle).
  • altrui:pronome indefinito generico: agli uomini in genere (cfr. I 18: mena dritto altrui); in questo caso: a noi (che fare altrui male non voglia qui dire «far del male agli altri, al prossimo», è assicurato sia dal riscontro aristotelico, sia dalle parole seguenti di Beatrice ai vv.91-3).
  • paurose:tali da far paura.
I' son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale.


  93
  • sua mercé:per grazia sua. È uno dei brevi, ma fondamentali accenni, sparsi come segnali lungo il testo di Dante, al fatto che è l'azione divina, e non il merito dell'uomo, a compiere tutto ciò che è nell'ordine della grazia.
  • tale, che...(91-93):essendo beata, non posso esser toccata, cioè menomata, dalla miseria dei dannati, né attaccata, colpita dal fuoco dell'inferno. Tutta la terzina ha precisi richiami scritturali, in base ai quali va dunque intesa: non mi tange (non mi tocca) traduce Sap. 3, 1: «Le anime dei giusti sono nella mano di Dio, e non li tocca ("tanget") il tormento della morte»; così la fiamma...non m'assale del v.93: «Quando camminerai nel fuoco, non arderai, e la fiamma non ti brucerà» (Is. 43, 2). In nessun modo l'inferno può dunque recar danno a Beatrice, e non è quindi per lei temibile. Ma al di sopra del senso logico, questa terzina, come già il v.71, isola e distacca la figura di Beatrice nell'immutabile serenità di un mondo infinitamente lontano.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo 'mpedimento ov'io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.


  96
  • Donna è gentil:la risposta alla richiesta esplicita di Virgilio poteva finire al v.93. Ma Beatrice risponde ora alla più profonda domanda che quelle parole includevano (cfr. nota al v.84). La donna, di cui qui non si fa il nome, è la Vergine Maria, che soccorre precorrendo la richiesta, come si dirà in Par. XXXIII 16-8 (e la chiusa del poema risponderà così al suo principio). Il nome di Maria, come quello di Cristo e di Dio, è sempre taciuto nell' Inferno, ma l'identificazione è indubbia. Sia perché essa è l'unica creatura che possa infrangere un decreto divino (v.96), sia per l'autorità con cui dispone degli altri beati (v.97). L'indicazione degli antichi, che vedevano in questa donna la grazia "preveniente"-cioè quella data gratuitamente da Dio all'uomo, prevedendo i suoi meriti-e in Lucia la grazia illuminante, può restar valida sul piano allegorico, senza togliere nulla alla realtà di questi due personaggi. Che si tratta di 3 persone reali, apparirà chiaro al v.124. Si osservi che Maria, come Lucia (v.98) e Beatrice, e come sarà Bernardo, è legata alla storia personale interiore di Dante (Par. XXIII 88-90), elemento diremmo obbligatorio dei personaggi chiave in tutta la tessitura del poema.
  • si compiange:si duole, provando compassione.
  • 'mpedimento:richiama il v.62: ne la diserta piaggia è impedito. Indica ostacolo insormontabile.
  • duro giudicio...:infrange la severa sentenza divina; la misericordia di Maria è dunque più forte della giustizia di Dio. Tutta l'espressione è forse di origine biblica (cfr. Prov. 25, 15: «una lingua dolce rompe ogni durezza») e la frase appare linguisticamente tra le più dense e potenti del canto: il solo "compiangersi" di lei basta a "infrangere" la ferrea legge celeste.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando -.


  99
  • chiese...in suo dimando:chiamò presso di sé; espressione ridondante, che fu forse di uso comune (Vandelli).
  • Lucia:la santa martite siracusana, accecata e uccisa sotto la persecuzione di Diocleziano, e venerata come protettrice della vista, probabilmente grazie al suo nome: «Il nome "Lucia" deriva da "luce"» è scritto infatti nella Legenda aurea. La maggior parte dei commentatori antichi ha riconosciuto in lei la grazia illuminante, e in Maria quella preveniente. Dei vari significati allegorici proposti, questo ci sembra il più rispondente (oltre che al nome, sempre essenziale per Dante: si pensi a Beatrice, cfr. Vita Nuova XIII 4) al senso complessivo di questa scena celeste, che sta tutto nel muoversi dell'amore divino-la grazia appunto, in teologia-in aiuto dell'uomo. Dante sceglie Lucia perché legato a lei da particolare devozione, come testimonia il figlio Jacopo (cfr. v.98: il tuo fededle; e si è anche pensato che la ragione biografica fosse la malattia degli occhi di cui egli stesso parla in Conv. III, IX 15), ma anche perché la santa protettrice della vista ben si addice a raffigurare la luce della grazia che apre gli occhi accecati dell'uomo. Le 2 ragioni, come sempre nella Commedia, sono strettamente unite. Lucia tornerà in aiuto a Dante, sempre come gratuito e decisivo soccorso, in Purg. IX 19-33, 52-7, e nell'alto del Paradiso, dove ella è nominata tra i più grandi santi, si ricorderà questo suo primo intervento per la salvezza di chi allora "rovinava" senza apparente scampo (Par. XXXII 136-8). Questa sua presenza nelle 3 cantiche rivela il peso che Dante ha voluto dare alla sua figura, e a ciò che essa rappresenta.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov'i' era,
che mi sedea con l'antica Rachele.


102
  • nimica di ciascun crudele:ciascun crudele è neutro sostantivo: nemica di ogni crudeltà (cfr. Rime C 65: «ogni altro dolce»). L'espressione significa quindi: piena di misericordia, intendendo per il suo contrario, come l'altra di questo stesso canto: l'avversario d'ogne male (v.16), ossia il bene stesso. La grazia è in realtà dono della misericordia divina; già l'Anonimo e il Boccaccio intesero Lucia come simbolo della misericordia stessa, rivelando la convergenza dei significati allegorici proposti dagli antichi.
  • Rachele:moglie di Giacobbe, era considerata dall'esegesi biblica figura della vita contemplativa (come la sorella Lia, della vita attiva). Dante stesso indica questi 2 significati in Purg. XXVII 103-8; il fatto che Beatrice sieda con lei indica dunque lo stato di contemplazione come suo specifico. Questo è l'altro luogo del canto (oltre ai vv.76-8) dove si può riconoscere un'indicazione dell'aspetto allegorico di Beatrice che, in quanto scienza delle cose divine, è al suo posto presso Rachele (come la ritroveremo nell'Empireo, in Par. XXXII 8-9).
Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t'amò tanto,
ch'uscì per te de la volgare schiera?


105
  • loda di Dio vera:la persona stessa di Beatrice, per la sua bellezza e la sua virtù, è una lode di Dio. Questa idea è fondamentale nella Vita Nuova (cfr. XXVI 1-2), alla quale questo e i 2 versi successivi richiamano in modo preciso.
  • t'amò tanto:si osservi che l'unica ragione qui adotta-da parte di Dante-della sua salvezza, il titolo che egli ha per essere aiutato, è esclusivamente l'amore (cfr. I 83: vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore). E si veda come il verso si solleva esprimendo con la semplicità del linguaggio proprio di ogni tempo e di ogni uomo quella grande forza d'amore.
  • ch'uscì per te...:la frase può essere riferita a un fatto strettamente letterario (e tuttavia, per Dante, sempre di ordine etico), e cioè che egli uscì dalla schiera degli altri rimatori in volgare, quando con la canzone Donne ch'avete inaugurò le nove rime (come ricorda in Purg. XXIV 49-51), fondate sulla loda, o canto dell'amore disinteressato; o più genericamente, e forse in modo più consono al testo, si può intendere (rifacendosi aConv. I, I 10: «fuggito da la pastura del vulgo») come il volgersi di Dante esclusivamente agli studi alti e nobili, lasciando ogni altra occupazione propria del volgo, in virtù di quell'amore; forse anche, come si dice in Vita Nuova XLII 1-2, per poter "più degnamente trattare di lei" e "dicer di lei quello che mai fue detto d'alcuna". Il senso profondo del verso è in ogni caso che, in forza di quell'amore, tutta la vita di Dante fu cambiata e sollevata, e l'evento-come ogni altro evento che lo riguardi-è contemporaneamente etico e letterario.
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che 'l combatte
su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? -.


108
  • la pietà:l'angoscia, che desta pietà (cfr. 121).
  • che 'l combatte:che combatte con lui; l'immagine della lotta, che qui rapidamente affiora, fra l'uomo e le forze del male (la morte è qui la morte spirituale dovuta al peccato figurata nelle fiere) è classica nella tradizione cristiana (cfr. 1 Pet. 5, 8-9). Come è proprio dello stile dantesco, il solo verbo, portando la metafora (non "impedisce", ma combatte), rende concreta e visibile la vicenda interiore umana.
  • su la fiumana...:verso tormentato dell'esegersi. Molti intesero l'Acheronte (del quale ancora non si è parlato, e che si troverà oltre la porta dell'inferno), sul quale il mare non può vantarsi di averlo come tributario. Più importante l'identificazione con il Giordano (altro fiume che non finisce sul mare), che impediva agli Ebrei di raggiungere la terra promessa, e che si aprì davanti a loro per intervento divino; interpretazione che si accorderebbe alla figura dell'Esodo già suggerità dal deserto e dallo scampato naufragio. Ma i più oggi intendono sulla scorta di molti testi cristiani ben noti, che la fiumana sia il tempestoso flutto delle passioni, per le quali l'uomo è in continuo rischio di morte, e del quale il mare non è più terribile (non ha vanto). Dante stesso paragona la selva all' acqua perigliosa in I 22-7. Importante la precisazione del Buti: «fiumana è più che fiume, cioè allagazione di molte acque, e sospinge chiunque entra in esso».
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com'io, dopo cotai parole fatte,


111
  • non fur...ratte:non ci furono mai persone così rapide, veloci.
  • lor pro:il proprio vantaggio. La maggiore velocità che si possa immaginare sulla terra è appunto quella di chi cerca il proprio bene e fugge il proprio male. Beatrice-che viene dal cielo-si muove invece per fare il bene di un altro.
  • dopo...fatte:dopo che furono pronunciate (fatte) tali parole (per il costrutto cfr. Purg. VII 54).
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".


114
  • onesto:dignitoso e nobile (onesto nella lingua di Dante e dei suoi contemporanei è ancora legato al suo valore etimologico, da "honor", come l'aggettivo latino "honestus"); si veda il v.67: con la tua parola ornata. Si riafferma qui che è la qualità della parola di Virgilio quella che lo fa prescegliere. La bellezza e la dignità (ornata-onesto) di questo parlare, che è parlare poetico, tutt'altro che valori esteriori, fanno presa sull'animo dell'uomo fino a poterlo indurre a lasciare il male per il bene («l'autore mostra in ciò la potenza e il valore dell'eloquenza, che può richiamare gli erranti...e piegare i più pertinaci»: Benvenuto). Questa esperienza fa parte della più interna storia di Dante, che non per niente scrive a sua volta-per la salvezza degli uomini-proprio un poema.
  • quei ch'udito l'hanno:quelli che lo hanno voluto ascoltare.
Poscia che m'ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.


117
  • ragionato:detto.
  • lucenti:fatti ancor più lucenti per le lacrime; è l'ultimo tratto di Beatrice, che con questo sguardo luminoso, come è entrata, così esce dalla scena, Come al suo apparire, l'unico elemento che del suo aspetto ci è dato è appunto la luce dei suoi occhi, con evidente rimando interno (lucevan li occhi suoi...li occhi lucenti). Di tale luce essa vive, come si vedrà alla fine del Purgatorio e del Paradiso. È la luce degli occhi che contemplano Dio, e che pure sono pronti a lacrimare per una singola sventura umana. In questo profondo rapporto è racchiuso il segreto di tutte le grandi figurazioni della Commedia.
  • volse:rivolse indietro, allontanandosi; e quasi celandoli. Altri intende: rivolse verso di me. Ma sembra che Beatrice già debba guardare Virgilio mentre gli sta parlando, e qui si voglia dire che, finito di parlare (115), ella si muove per allontanarsi, distogliendo quindi gli occhi da lui. Nell'andarsene ella lascia intravedere quell'umano pianto, tratto che appare, come osservò Momigliano, «l'ultima perfezione del canto».
  • mi fece del venir più presto:quanto al venire, mi rese più veloce; cfr. v.34.
E venni a te così com'ella volse:
d'inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.


120
  • volse:volle; forma di perfetto arcaico, usato anche da Petrarca, dovuto ad analogia con i perfetti in -is (come dolse).
  • d'inanzi...:ti prelevai da davanti quella belva, la quale ti impedì l'ascesa al monte.
  • il corto andar:la via breve (della salita diretta). Dante non può affrontare direttamente la lupa per salire il colle, perché soccomberebbe (I 94-6), ma gli è necessario tenere altro vïaggio, cioè compiere la lunga strada della purificazione.
Dunque: che è perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,


123
  • perché...perché(121-123)l'incalzare dei perché anaforici sembra smuovere alla base la resistenza immobile di Dante (restai). La parola onrata di Virgilio corrisponde alla richiesta di Beatrice, entrando in azione con tutte le sue risorse.
  • restai:ristai, stai fermo.
  • allette:alletti, cioè accogli con compiacenza dentro di te (cfr. IX 93). "Allettare" è frequentativo del latino "allicere".
  • ardire e franchezza:contrapposti a viltà del v.122; la coppia quasi sinonimica, comune ad altri testi trecenteschi, serve, come un'aggettivazione, a dir più che il semplice coraggio, un coraggio ardito e fiducioso, quale una simile protezione celeste può ispirare.
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e 'l mio parlar tanto ben ti promette?».


126
  • poscia che...(124-125):dopo che tre donne sante di tale importanza hanno cura di te.
Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,


129
  • Quali fioretti...:la similitudine, perfetta quanto alla corrispondenza dei termini, dolcissima nell'espressione, chiude e riepiloga il canto, riassumendo il mutamento da timore ad ardire che è l'evento qui narrato. Tra i due stadi del personaggio Dante, il tormentoso esitare e pensare nell' oscura costa, e il franco muoversi verso la difficile impresa (v.142), è intervenuto lo splendore della comparsa di Beatrice, come tra le 2 condizioni dei fiori, chianti e chiusi, e aperti e drizzati, sta nel verso la bianca luce del sole del mattino. Non scorgiamo qui alcun preziosismo (Sapegno), ma, come altrove nella Commedia, gli aspetti anche minimi della natura sono amorosamente raccolti e investiti della dignità di rappresentare la vita spirituale dell'uomo.
  • fioretti:questo termine usato con predilezione da Dante per i fiori (già nelle Rime C 47 e poi in Purg. XXVIII 56; XXXII 73; e Par. XXX 111) non è, come osservò il Contini (Commento alle Rime, p.151), propriamente un diminutivo. Si cfr. XI 17: tre cerchietti, per cerchi infernali, o Par. XIX 4: rubinetto, per rubino. Si tratta quindi di un "diminutivo poetico" (Mattalia), dovuto forse all'influenza del francese "flouretes", che compare varie volte nell Roman de la Rose (Mazzoni). Tuttavia esso connota certamente la particolare bellezza o grazia, propria di tutti i fiori.
  • dal notturno gelo:complemento d'agente, dipende da chinati e chiusi
  • 'mbianca:illumina, con la luce dell'alba.
tal mi fec'io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch'i' cominciai come persona franca:


132
  • di mia virtude stanca:complemento di limitazione (cfr. del venir al v.117); tale divenni io, nella mia forza (virtude) debole e affranta (che si risollevò proprio come i fioretti sullo stelo). Con questo verso l'evento interiore è già concluso, e le ultime terzine svolgono e dichiarano quanto è ormai compiuto.
  • ardire...franca(131-132):riprende i termini usati da Virgilio poco sopra: ardire, franchezza (v.123).
«Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch'ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!


135
  • pietosa:ricca di pietà, perché venne in suo aiuto; tuttavia l'aggettivo è tipico delle Rime dantesche (cfr. Vita Nuova XXIII, Donna pietosa 1 e XXXVIII, Gentil pensiero 13; Conv. II, Voi che 'ntendendo 46) e assume quindi una vista risonanza di significato, coinvolgendo l'antica esperienza nella nuova e definitiva esperienza di salvezza.
  • cortese:riprende la parola di Beatrice (v.58); la terzina sembra riepilogare tutta la scena narrata da Virgilio nei 2 atteggiamenti dei protagonisti.
Tu m' hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
ch'i' son tornato nel primo proposto.


138
  • Tu m'hai...(136-137):Tu, con le tue parole, hai reso il mio cuore così desideroso di venire...
  • con disiderio:il disiderio, o disio, la sola cosa che veramente muove l'uomo, in quanto correlativa all'amore, è parola determinante nel mondo dantesco; essa conduce tutto il viaggio della Commedia, come si vedrà, fino all'ultima terzina: ma già volgeva il mio disio e 'l velle... (Par. XXXIII 143).
  • con le parole tue:cfr. sopra, vv.67 e 113; si conferma che è proprio in virtù della parola di Virgilio che Dante si dispone ad agire.
  • nel primo proposto:nel primo proponimento (cfr. v.38), cioè quello espresso alla fine del canto I, ai vv.130-5.
Or va, ch'un sol volere è d'ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro».
Così li dissi; e poi che mosso fue,


141
  • un sol volere...:abbiamo entrambi un identico volere, un'identica mèta.
  • tu duca...segnore...maestro:sono gli appellativi che d'ora in avanti avrà sempre in Virgilio nella Commedia: «tu duca, quanto è all'andare; tu signore, quanto è alla premiazione e al comandare; tu maestro, quanto è al dimostrare» (Boccaccio).
intrai per lo cammino alto e silvestro.

  • alto:profondo, perché si scende nel centro della terra o anche arduo, difficile (cfr. v.12). Nel primo caso, alto e silvestro sono una "varatio" sull'aspetto esteriore, e terribile, del cammino; nel secondo caso, il primo aggettivo viene a essere quasi effetto dell'altro (arduo perché silvestro). Ambedue i casi si ritrovano nell'uso dantesco del doppio aggettivo, in quanto silvestro già comporta il valore di arduo per via di figura.
  • silvestro:selvaggio (cfr. Purg. XXX 118); cammin silvestro è chiamato il viaggio per l'inferno anche in XXI 84; il verso finale riprende, con più decisione e precisione, quello del I canto, come a chiudere una parentesi. Il racconto riprende dove era stato lasciato.
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